La Roma dei margini conquista Venezia

Sacro Gra vince il Leone d'oro

“Sacro Gra”. L’Italia conquista il Leone d’Oro dopo una lunga astinenza grazie al film documentario di Gianfranco Rosi. Il risultato è eccellente: il film sul Grande raccordo anulare era senza dubbio tra i migliori del concorso, alzando peraltro la media della nostra pattuglia nazionale piuttosto incolore. Ma il risultato è anche sorprendente. Dopotutto il presidente Bernardo Bertolucci lo aveva promesso sin da subito: con i premi vi stupiremo. Così è stato. Era la prima volta che i documentari erano ammessi al concorso principale (l’altro era “The Unknown Known” di Errol Morris su Donald Rumsfeld): subito sugli altari. E per di più col tricolore addosso. L’ultimo film italiano a vincere il massimo riconoscimento era stato nel 1998 “Così ridevano” di Gianni Amelio (quest’anno di nuovo in gara con “L’intrepido”). Curiosità: esattamente mezzo secolo fa un altro Rosi, questa volta Francesco, conquistava il Leone d’Oro con “Le mani sulla città”, pellicola non documentaria ma comunque di forte presa sulla realtà e ugualmente centrata sul racconto urbano (in quel caso, Napoli devastata dalla speculazione edilizia).

“Sacro Gra” ci è piaciuto sin da subito. E’ un ritratto potente e anche con molti momenti di divertimento della Roma marginale, così lontana dalla languida “grande bellezza” sorrentiniana del centro storico. Questa è una Roma assai più vera e profonda che esplora e vive quel confine quasi metafisico: perché dentro il Gra è Roma, fuori è resto del mondo. Intenso è il modo in cui Rosi racconta il panorama che si dipana lungo e intorno la striscia d’asfalto autostradale che per una settantina di chilometri circonda l’Urbe. E straordinari i personaggi che il regista ha incontrato e raccontato in tre anni di lavoro: il principe con la magione anni Sessanta a Boccea, il botanico delle palme, le anziane puttane, un pescatore di anguille, l’infermiere del 118, l’anziano attore di fotoromanzi, la signora sola davanti alla tv… Rosi giustamente li ringrazia, i suoi attori non attori, come ringrazia la ex moglie, «perché mi ha costretto a fare questo film: io volevo lasciare Roma, non mi piaceva più, poi girando ho ricominciato ad amarla, proprio grazie al Raccordo…». Onore meritato.

Proseguendo, per ordine di importanza, con i riconoscimenti, il Gran Premio della Giuria va a “Jiaoyou (Stray Dogs)” del regista malese Tsai Ming Liang, beniamino dei festival internazionali, che proprio qui a Venezia con questo film ha annunciato il suo addio al cinema. Il film ha entusiasmato la platea cinefila, ma è ben lontano dall’essere memorabile: a meno che non piaccia guardare due persone che per un quarto d’ora guardano un muro. Autorialismo spinto, fino ai limiti dell’inutilità.

Ben due premi li porta a casa il greco “Miss Violence”: per la migliore regia ad Alexandros Avranos e per il suo attore protagonista Themis Panou. Esagerati due riconoscimenti per quest’opera programmaticamente disturbante e manichea su una famiglia devastata dalle pulsioni del genitore apparentemente integerrimo: il quale è invece pedofilo, incestuoso e pure pappone. Un abbaglio.

Per l’Italia un altro premio arriva sul versante recitativo grazie alla migliore performance femminile: per il modesto “Via Castellana Bandiera” la Coppa Volpi va a Elena Cotta. Grande nome del nostro teatro, ma parecchio sopravvalutata nell’occasione, specie se confrontata con l’interpretazione fuori categoria della strepitosa Judi Dench in “Philomena”. La Cotta per tutto il film non dice una parola, in compenso non smette di parlare sul palco per i ringraziamenti di rito: dal marito Carlo a Emma Dante fino all’ultimo attrezzista. Generosa lei, ancor di più la giuria. Comunque bene così, siamo patriottici.

Premio “Mastroianni” al miglior interprete emergente (maschile o femminile) al giovanissimo e bravo Tye Sheridan per “Joe”. Migliore sceneggiatura a “Philomena”, firmata da Steve Coogan e Jeff Pope: scelta incontestabile, la scrittura è gran parte della bellezza di questo film. C’è infine un piuttosto inutile Premio speciale della Giuria (che senso ha? C’è già il Gran premio) all’inguardabile film tedesco “Die Frau des Polizisten” di Philip Gröning.

Quanto alla sezione Orizzonti, che è quella che accoglie il cinema più innovativo, il miglior film è stato considerato il francese “Eastern Boys” di Robin Campillo: storia di un amore omosessuale mercenario che evolve melodrammaticamente verso l’adozione. La prima mezz’ora è grande cinema, poi perde tensione, pur restando un buon film (confrontare con il connazionale splendido “Apache”, in programmazione nelle nostre sale). Assai più compatto e riuscito è “Still Life” dell’italo-britannico Uberto Pasolini, premiato come miglior regista. La storia: a un addetto ai funerali per poveri cristi senza famiglia viene annunciato il licenziamento e così la sua ultima missione avrà una particolare importanza. Film bello anche per il suo eccezionale protagonista, Eddie Marsan (Pasolini con signorilità in conferenza stampa gli dà il grosso del merito). Il Premio speciale della Giuria va a “Ruin” di Michael Cody e Amiel Courtin-Wilson, premio per il miglior contributo innovativo a “Fish & Cat” di Shahram Mokri e infine il Premio De Laurentiis alla migliore opera prima è assegnato a “White Shadow” di Noaz Deshe.

Questo è quanto da Venezia. L’Italia può gioire per il successo di un gran film come “Sacro Gra”. Forse però la giuria avrebbe dovuto ricordarsi di due grandi film come “La jalousie” di Philippe Garrel e “Tom à la ferme” di Xavier Dolan, entrambi completamente ignorati. Forse una pellicola come “Locke” di Steven Knight con un immenso Tom Hardy andava messa in concorso: è stata tra le migliori viste qui al Lido. Forse forse forse. Ogni Mostra, come ogni altro festival del mondo, lascia i suoi dubbi. La numero 70 oggi è finita, appuntamento alla numero 71.

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