Il carcere è ormai osceno. Anche nel senso letterale del termine. Ob Scaenum, fuori dalla scena. E nonostante la politica negli ultimi mese sia tornata a parlare di riforma della giustizia e rinnovo del sistema carcerario, l’impressione è che non si entri mai per davvero nelle pieghe che si vogliono raddrizzare o non si prendano mai in mano i nodi che si vogliono sciogliere. Il linguaggio della politica quando si avvicina alle sbarre utilizza spesso gli stessi luoghi comuni con cui si approcciano i tabù. Riassume benissimo il concetto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe. In una sola frase.
«Il carcere è diventato la discarica dove nascondere tutto ciò che la società non vuole più vedere. Tossicodipendenti, disabili psichici e chi non è in alcun modo integrato».
Capece guarda con preoccupazione anche al 2014, «quando chiuderanno gli ospedali psichiatrici e nella realtà dei fatti saremo chiamati a colmare le lacune dello Stato».
Il timore è confrontarsi continuamente con realtà che richiedono preparazione e formazione professionale differenti da quella di una guardia carceraria e trovarsi a farlo in situazioni di continua emergenza. Turni di nove ore. Nei quali può capitare che un solo agente si trovi a sorvegliare una cinquantina di detenuti. È tutt’altro che un caso se dal Duemila a oggi ci sono stati cento suicidi tra chi indossa la divisa della polizia penitenziaria. Sette solo da gennaio a luglio. Ma il campanello d’allarme e segnale che il sistema carcerario va riformato al più presto arriva da un’altra statistica. Meno cruenta ma altrettanto drammatica. Da un triennio a questa parte una media di quattrocento guardie all’anno ha ottenuto il congedo anticipato per inabilità. L’uno per cento dell’organico se ne va per motivi psichici. Si chiama in gergo tecnico burnout. Significa che sono stati riformati un attimo prima di scoppiare.
Per inquadrare meglio il dato basti pensare che ogni anno vanno in pensione all’incirca 1.200 poliziotti carcerari e il 30% non riceve la pensione per motivi di età ma per inabilità al servizio. Forse qualcuno visto allontanarsi il traguardo della pensione ha pensato di approfittare dello stress. Ma la statistica è troppo elevata perché non venga presa in considerazione. Una fuori uscita nel complesso devastante anche dal punto di vista economico. Si tratta di quattrocento persone che gravano sul sistema pensionistico in anticipo rispetto alle norme e si tratta di uno spreco di persone che hanno ricevuto preparazione e formazione e vengono lasciate andare via in silenzio. Senza che le istituzioni prendano atto di quanto sta accadendo e dimostrino il rispetto che dovrebbe andare agli uomini che indossano una divisa. Purtroppo il rispetto fa spesso a botte con i tagli lineari che impongono scelte aspre e controproducenti. Non consentono di rimettere in sesto l’organico e limitano il turnover al 20% delle fuoriuscite. Tra gli ultimi dati disponibili, risalenti a circa un anno, fa la carenza di dirigenti era del 22,1% (non a caso in molti istituti manca proprio il direttore), quella degli ex educatori, oggi funzionari giuridico-pedagogici, del 27,2%, quella di assistenti sociali addirittura del 35,1 per cento (all’argomento Linkiesta ha già dedicato un approfondimento).
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Soprattutto i tagli lineari non riescono a fare pulizia degli interventi antieconomici. «Vorrei fare un esempio su tutti», aggiunge il segretario del Sappe, «nel 2010 l’amministrazione ha sottoscritto con Telecom un accordo quinquennale da 2,5 milioni di euro per 2mila braccialetti elettronici. Trascorsi tre anni ne sono in funzione solo sette. E gli altri 1993?». Non li sta usando nessuno, eppure c’è un disperato bisogna di applicare misure alternative. Dei circa 68 mila detenuti in carcere nel 2011, oltre 21mila erano in attesa di giudizio e circa 14 mila sono stati dietro le sbarre per pochi giorni. Chi li sorveglia chiama tale situazione «Effetto tornelli». Ovvero le porte girevoli che lasciano uscire un individuo e subito ne risucchiano un altro. «Nel 2011 l’effetto tornelli è costato allo Stato 10 milioni di euro», specifica Capece, «perché impone a noi operatori lo stesso lavoro che richiede un detenuto di lunga permanenza».
E nel conteggio dei costi, mancano i danni sociali. La maggior parte di chi è stato in carcere anche per una settimana non troverà lavoro nei mesi successivi e, in alcuni casi, nemmeno negli anni a venire. Moltiplicando la probabilità di tornare in carcere. Un danno sul Pil del Paese e sull’intero tessuto sociale. Per non parlare dei reati connessi all’uso delle droghe. Ben 15.663 detenuti, il 23,84% dei 65.701 presenti nelle carceri italiane il 31 dicembre scorso, ha problemi di tossicodipendenza: di questi, 4.864 sono gli stranieri. Sardegna, Puglia, Molise, Liguria e Lombardia le regioni nelle quali la percentuale supera abbondantemente il 30% delle presenze, denunciava recentemente il sindacato. Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi. «La legge», prosegue Capece, «prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò», conclude, «queste persone continuano a rimanere dentro».
Nella maggior parte dei casi i detenuti tossicodipendenti sono persone che commettono reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione. Per gli operatori in divisa l’amnistia non è la soluzione. Serve maggiore collaborazione tra gli elementi che costituiscono lo Stato e – passateci il gioco di parole – più senso dello Stato da parte dei singoli ingranaggi della giustizia. Insomma la riforma delle carceri comincia da quella dei processi e della scelta della pena. Sembrerebbe banale, ma è il primo passo per togliere dall’oscenità chi sta dentro le mura delle prigioni italiane.