Mentre settembre si chiude con decine di scadenze fiscali per circa 20 milioni di italiani, ottobre si apre con l’aumento Iva e tutto ciò che ne consegue. Ma la caduta del governo Letta, o qualunque altra soluzione che preveda un blocco a quel già scarso dinamismo che ha dimostrato l’esecutivo, farà scendere una gran quantità di polvere su dossier e fascicoli che avrebbero dovuto aiutare gli italiani a trascorrere giornate un po’ meno complicate o affrontare nodi fondamentali per il futuro dell’economia. A cominciare dalla legge di stabilità. Quest’ultima dovrebbe entrare in vigore anche senza un governo (o con un governo condizionato dalle ultime richieste di Silvio Berlusconi), ma la probabilità che sia una versione edulcorata è altissima. Gli effetti diretti sarebbero tanti, troppi. In sostanza, addio a tutte le misure per lo sviluppo. E un punto interrogativo sul rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, per la quale servirebbero 330 milioni di euro.
Uno degli effetti secondari, poi, dovrebbe andare a impattare sulla legge di delega fiscale, che forse non verrà mai discussa in Senato. Dentro ci sarebbe potuto essere un capitolo dedicato alle multinazionali come Google, esperte di pianificazione fiscale. Nel 2012 l’azienda a fronte di 2,5 milioni di utili e 52 di fatturato ha versato all’Erario 1,2 milioni di euro. In sostanza gli unici redditi sono i ricavi arrivati da Google Inc. e Google Ireland. Ci siamo sempre schierati contro il moralismo fiscale: si paga ciò che prevede la legge, nulla di più, nulla di meno. Questa però poteva essere l’occasione di cambiare le regole cercando di ottimizzare il gettito in modo razionale e senza massacrare (come con la Tobin Tax) altri comparti. Quasi sicuramente l’occasione, senza governo, non ci sarà. Né almeno per i prossimi mesi potremo sperare che qualcuno parli di transfer pricing o normative legate ai ricavi on line. Continueremo a discutere di Imu, service tax (nella migliore delle ipotesi) o di Fmi e Troika (nella peggiore). O forse il contrario.
La caduta del governo rischia di impattare anche sulle aziende che aspettavano, sempre più simili a un capitano Drogo nel deserto, un alleggerimento burocratico. Il primo ottobre, dopo ritardi e slittamenti, entra in vigore anche il Sistri, il sistema di tracciabilità informatica dei rifiuti. Le associazioni di categoria hanno chiesto altre deroghe. Il ministero dell’Ambiente è intervenuto con numerosi chiarimenti e per il primo mese non ci saranno sanzioni. «La platea degli obbligati», si legge, «tuttavia, resta dinamica; infatti, il comma 4 dell’articolo 11 prevede un Dm che individui altre categorie di obbligati da ricercare, sembra, tra i produttori di rifiuti non pericolosi». In sostanza, le nuove norme valgono sicuramente per 17mila aziende, che trasportano rifiuti pericolosi, ma potrebbe essere estesa ad altre 33mila. Lasciandone circa 20mila in attesa di delucidazioni. Assoambiente, l’associazione che fa parte di Confindustria, ha già lanciato l’allarme. Un governo in carica forse – e ribadiamo forse – darebbe qualche certezza in più. Ma anche su questo fronte il rischio è invece quello di assistere all’ennesimo pastrocchio, al quale rimediare ex post.
Anche Taranto in caso di caduta di governo non avrà benefici. Se il ministro Flavio Zanonato ha trovato in extremis una soluzione per il gruppo Riva (l’intervento era urgente), l’Ilva attende il decreto legge che doveva essere discusso nel cdm e che invece ha prodotto solo le dimissioni dei ministri Pdl. Nel dl si dovrebbe estendere il commissariamento delle controllate per permettere al gruppo una gestione che superi il breve termine. È vero, non c’è urgenza, ma aspettare non farà altro che accavallare i problemi quando si sommeranno alla questione delle discariche interne allo stabilimento necessarie alla bonifica imposta dall’Aia. La Regione guidata da Nichi Vendola aveva già sollevato obiezioni e quindi se il relativo decreto non dovesse essere discusso dal Senato, che succederà? Come al solito, chi deve lavorare pancia a terra sui problemi si troverà con i bastoni tra le ruote.
Giovedì sarà anche il giorno di Telecom. Franco Bernabè ha annunciato la sua intenzione di dimettersi dal vertice. In questo caso la presenza o l’assenza di un governo può leggersi in due direzioni, a partire dalle dichiarazioni di Letta al riguardo. «Telecom è un’azienda privata», ha detto. Al contrario della gran parte di politici e sindacati, secondo cui gli spagnoli andrebbero fermati a ogni costo. Anche cambiando in corso d’opera le regole di Opa e Golden Share. Visto l’iper attenzione degli ultimi mesi da parte dei servizi segreti italiani sull’arrivo di capitali esteri in aziende italiane (e i ripetuti allarmi lanciati anche in Parlamento) sembra di capire che nemmeno Telefonica sarebbe da considerare benvenuta. A questo punto resta da capire se chi vuol frenare o estromettere gli spagnoli avrà con l’assenza di esecutivo gioco facile o maggiori difficoltà. Quello che è certo è che dovremo dire addio per l’ennesima volta alla trasparenza. Lasciamo perdere il rispetto del libero mercato.
Dubitiamo possa realizzarsi anche il piano di riforma degli aeroporti. Quello del ministro Lupi, che era ereditato da Corrado Passera. E prima ancora da Alessandro Bianchi, ministro dei trasporti nel 2006. Che a sua volta aveva aperto una pratica nata nel 1986. Che ne sarà di Alitalia? Un altro fascicolo che rischia di prendere polvere, sempre che non arrivi in tutta fretta qualcuno a salvarla dal fallimento o a decretarlo. Sperando non (anche stavolta) a spese dei cittadini. Resta ancora un grosso punto di domanda attorno al futuro di Finmeccanica, non solo in tema di cessioni, ma anche di strategie. E ci fermiamo qui. Omettendo tutti quei fascicoli (riforme strutturali del Paese) di cui, nemmeno all’orizzonte, c’era la possibilità di sperare in una spolverata.