Dopo tre giorni di colloqui tra Teheran e la comunità internazionale (P5+1 – membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e Germania) che hanno tenuto con il fiato sospeso le cancellerie di mezzo mondo, questa mattina, lunedì 11 novembre, l’Iran ha firmato un accordo che consentirà agli ispettori dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) di visitare il reattore ad acqua pesante di Arak e la miniera di uranio di Gachin.
L’accordo è stato firmato nel corso dell’incontro tra il direttore generale dell’agenzia Onu, Yukiya Amano, e il capo negoziatore iraniano, Ali Akbar Salehi, che ricopre anche la carica di presidente dell’Agenzia per l’Energia Atomica dell’Iran. La realizzazione pratica dell’intesa verrà definita «nei prossimi tre mesi a partire da oggi», ha spiegato Amano nel corso di una conferenza stampa trasmessa in tv. «Entro tre mesi faremo un rapporto sulle nostre ispezioni e lo presenteremo al board dei governatori dell’Aiea», ha aggiunto.
«Siamo stati autorizzati dal Supremo consiglio per la sicurezza nazionale a dire all’Agenzia atomica internazionale che gli ispettori possono venire ad ispezionare il nostro impianto ad acqua pesante di Arak e anche la miniera di Golchin a Bandar Abbas», ha detto l’ex-ministro degli Esteri Salehi. «È stata una mossa volontaria da parte dell’Iran», ha detto ancora il capo dell’Ente atomico iraniano sottolineando che «abbiamo voluto dimostrare la nostra buona volontà» visto che le norme di «salvaguardia» nucleare, «non siamo obbligati a consentire simili ispezioni».
Solo ieri sera, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif in un’intervista alla Bbc, aveva gelato tutti parlando di accordo slittato di «7-10 giorni», in seguito «alle divergenze interne ai 5+1». L’ultima speranza era rimasta proprio nella visita a Teheran del direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica, Yukiya Amano, prevista per lunedì 11 novembre.
Per la prima volta sono stati proprio i negoziatori iraniani a tentare di strappare a tutti i costi una road map per uscire dall’angolo, in cui si è messo il Paese negli anni di governo ultra-conservatore E così, quando sono emerse le divergenze, il pragmatico presidente Rohani ha chiesto da Teheran di non perdere un’«occasione eccezionale». In caso di successo, il compromesso sarebbe stato rappresentato all’opinione pubblica nazionale come il tentativo di affermare l’indipendenza iraniana, pur senza cedere al diritto di dotarsi di un nucleare a scopo civile. E più concretamente di chiudere con l’asfissiante crisi economica innescata dal muro contro muro di Ahmadinejad.
A far saltare il tavolo, ieri sera 10 novembre, era stata l’ennesima divisione interna all’Unione europea. Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius si è rifiutato infatti di siglare la prima bozza, annunciata da Mosca, che circolava sin da venerdì a Ginevra Le preoccupazioni in materia di sicurezza, espresse dalla Francia, hanno provocato lo strappo di parte della delegazione iraniana che ha lasciato il tavolo per alcune ore, accusando Parigi di essere sulle stesse posizioni intransigenti di Israele. Eppure, la possibilità di un accordo imminente aveva fatto volare in Svizzera tutti i ministri degli Esteri dei paesi coinvolti nel negoziato. Dal canto loro, Londra e Berlino hanno spinto fino all’ultimo momento per chiudere il cerchio. Il britannico William Hague ha chiesto di «cogliere l’attimo» e il tedesco Guido Westerwelle ha assicurato «trasparenza nei controlli». Mentre risuonava il laconico «rifiuto categorico» dell’intesa da parte del premier Benjamin Netanyahu.
Vi riproponiamo l’intervista a Ramin Jahanbegloo, docente di Etica dell’Università di Toronto sulle difficoltà della trattativa, pubblicata ieri 10 novembre 2013
I colloqui di Ginevra sono entrati nel pomeriggio in una fase molto delicata. La principale richiesta dei negoziatori è che l’Iran congeli le attività del reattore ad acqua pesante di Arak, che blocchi le 19mila centrifughe già in funzione e la costruzione delle nuove Ir-2. Mentre è ancora da definire dove andranno a finire le scorte di uranio già arricchito al 20%. «Quando il reattore (di Arak, ndr) inizierà le sue attività, ogni azione ostile avrebbe conseguenze ambientali gravi», ha detto Olli Heinonen, ex vice direttore dell’Aiea. «Per questo la costruzione deve essere fermata prima della sigla di un accordo», ha aggiunto. In cambio, i 5+1 si sono detti pronti a scongelare almeno 50 miliardi di dollari, proventi della vendita di petrolio iraniano, bloccati nelle banche di mezzo mondo. Secondo stime vicine al governo iraniano, i fondi a cui Tehran non può accedere oscillano tra i 60 e i 100 miliardi. Mentre la Cina, coinvolta in negoziati paralleli con l’Iran e implicata insieme a Mosca e Islamabad nel suo programma nucleare, nonché primo acquirente di greggio iraniano, ha confermato che i fondi bloccati sono pari a 47 miliardi di dollari, 25 dei quali trasferiti da Tehran alle banche europee tra il 2006 e il 2011.
Jahanbegloo: «È la fine dell’isolazionismo di Teheran»
Nonostante ciò, l’ottimismo prevale ancora tra i sostenitori di Rohani. «Si tratta di un momento storico, iniziato con l’elezione di Hassan Rohani, che ha aperto l’occasione per il dialogo sul nucleare e permesso di uscire dalla forma di politica escatologica di Ahmadinejad e dei suoi sostenitori», dichiara a Linkiesta l’intellettuale iraniano Ramin Jahanbegloo, docente di Etica dell’Università di Toronto. «Il nuovo corso delle relazioni tra Washington e Teheran sarà improntato sul pragmatismo. L’élite politica iraniana tenta di riconquistarsi così uno spazio sulla scena internazionale Ovviamente questo provocherà una reazione degli ultraconservatori, ispirati dalla sovranità divina più che dalla capacità civile di governare, ma mostrerà il potenziale repubblicano della società iraniana», prosegue Jahanbegloo.
In merito alle perplessità espresse da Khamenei sulle possibilità di un accordo, Jahanbegloo ribatte: «In realtà, Ali Khamenei ha dato il disco verde al ministro degli Esteri, Javad Zarif, per impegnarsi nei colloqui nucleari in linea con gli interessi iraniani e per il ruolo che Teheran può giocare in Siria, Iraq e Afghanistan. Questo lega indissolubilmente politica interna ed estera. Inoltre, non bisogna esagerare la portata delle proteste che hanno accolto Rohani al suo ritorno a Teheran da Washington perché il neo-eletto presidente ha trovato ad accoglierlo anche il consigliere di Khamenei in persona».
Non solo,dopo una prima fase di evidente scetticismo, anche i riformisti iraniani sembrano davvero fare quadrato intorno a Rohani. «Ora i riformisti sono di nuovo parte del gioco. L’ex presidente Mohammed Khatami sta sostenendo Rohani. È vero che i riformisti iraniani agiscono in retroguardia, ma sanno bene che devono appoggiare il tecnocrate se vogliono che (Rohani, ndr) abbia successo, per evitare che gli ultra conservatori abbiano motivi supplementari per escluderli dalla vita politica. Non solo, da quando è stato eletto Rohani ha fatto delle scelte di grande interesse. Ne cito due: la nomina di Javad Zarif a ministro degli Esteri e il rilascio dell’avvocato Nasrin Sotudeh. Tuttavia il nuovo presidente si sta muovendo molto gradualmente e razionalmente perché non ha intenzione di finire come Khatami», ammette il docente.
Tuttavia, è evidente che gli iraniani non sono pronti a cedere alle condizioni dei 5+1. «L’Iran non vuole l’atomica ma neppure fermarsi con l’arricchimento dell’uranio al 20%, i negoziatori dovranno trovare il giusto mezzo, non raggiungere una soluzione estrema ma mediata. Quello che fa ben sperare nel buon risultato dei negoziati è che sia Obama sia Rohani vogliono una soluzione. E così, le resistenze francesi (espresse dal ministro Laurent Fabius, ndr) non vengono prese seriamente in considerazione in questo contesto. Sia le autorità sia il popolo iraniano sono molto attenti ai passi che vengono dagli Stati uniti: per ora l’accordo si deve trovare con Washington non con Parigi». Eppure si parla di nucleare ma sembra che sia la crisi siriana al centro dei colloqui. «A tutti i livelli del negoziato, la Siria è parte delle discussioni. Gli iraniani mostrano tutta la loro influenza sulla crisi. Per esempio, potrebbero non essere più attori attivi del conflitto per difendere gli interessi economici della Repubblica islamica. Ma prima che questo avvenga gli iraniani vogliono sentire dalla voce di Obama che le sanzioni stanno per essere cancellate», conclude Jahanbegloo.
Il dibattito sul nucleare: il peggio è passato?
Non tutti concordano sul fatto che un Iran senza nucleare potrebbe essere fonte di stabilità regionale. Secondo Kenneth Waltz del Saltzman Institute for War and Peace Studies, la disponibilità di un’arma atomica da parte di Teheran potrebbe determinare maggiore stabilità regionale Se, da una parte, la capacità nucleare israeliana ha prodotto disequilibri regionali, dall’altra il governo iraniano ha sempre agito razionalmente di fronte alle crisi che lo hanno investito. Secondo questo approccio, in primo luogo, nuove sanzioni economiche contro l’Iran potrebbero accrescere la vulnerabilità del Paese e incrementare la necessità di protezione con armi nucleari. In secondo luogo, l’Iran potrebbe acquisire la capacità di costruire e testare armi atomiche, pur non detenendone alcuna, per soddisfare bisogni di politica interna. In questo caso, se le autorità israeliane dovessero considerare le capacità di arricchimento dell’uranio da parte di Teheran come una minaccia inaccettabile, potrebbero proseguire in azioni mirate all’eliminazione fisica del personale qualificato, impegnato nel programma nucleare.
E così, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti e Israele, Teheran potrebbe comunque arrivare a testare un’arma atomica e questo, secondo Waltz, potrebbe portare a una maggiore stabilità regionale, come è avvenuto in casi simili. L’arma nucleare ha spesso scoraggiato i Paesi che la detengono dal compiere azioni aggressive (Cina, India, Pakistan) Un esempio è l’accordo per la non aggressione di obiettivi nucleari tra India e Pakistan del 1991. Non solo, un controllo efficace degli Stati Uniti renderebbe improbabile un trasferimento a gruppi terroristici di armi nucleari da parte delle autorità di Teheran per le quali simili politiche avventuriere potrebbero rivelarsi molto costose e pericolose. In ultima analisi, secondo Walz, l’aumento del terrorismo e dei conflitti regionali sarebbe irrilevante rispetto alla stabilità che la disponibilità di un’arma atomica iraniana potrebbe determinare.
Secondo Graham Allison dell’università di Harvard, invece, le autorità iraniane non avrebbero alcuna ragione per non procedere alla costruzione di un’arma nucleare in assenza di una minaccia credibile di attacco da parte degli Stati Uniti, di Israele o altri Secondo Allison, la storia della Guerra fredda ha molto da insegnare sui rapporti che in questi anni sono venuti profilandosi tra l’Iran e gli Stati Uniti: questi ultimi, infatti, non farebbero che ripetere, con un altro interlocutore, la «crisi dei missili di Cuba al rallentatore». In quel caso il presidente John Kennedy decise di agire su tre livelli: un accordo pubblico di non invasione se l’Unione Sovietica avesse ritirato i missili; un ultimatum privato con la minaccia di un attacco a Cuba se l’Unione Sovietica non avesse accettato il ritiro; infine, la promessa segreta di ritiro dei missili degli Stati Uniti dalla Turchia entro sei mesi ove i Russi avessero ritirato i propri missili da Cuba. Una simile strategia applicata ai rapporti con l’Iran, sostiene Allison, potrebbe portare con sé qualche vantaggio. Infatti, in caso di assenza di una minaccia credibile, i limiti imposti dagli Stati Uniti sarebbero sempre valicati. È quanto, pochi anni fa, è avvenuto nel caso della Corea del Nord. Nel 2006 l’ex presidente George Bush stabilì che il trasferimento di armi nucleari da parte di Pyongyang sarebbe stato considerato una minaccia per gli Stati Uniti. Nonostante la Corea del Nord avesse venduto un reattore per il plutonio alla Siria, poi distrutto da Israele, le minacce di Washington non si concretizzarono.
Secondo John Nathan, una strategia fondata essenzialmente sulle minacce non potrebbe invece risolvere il problema con l’Iran. Un compromesso credibile che eviti la guerra sarebbe la soluzione migliore per la crisi sul nucleare iraniano, scrive l’autore. Per questo minacciare un attacco che non si realizza mai può solo rendere sempre più gravi le sfide ai limiti imposti al nemico. Nella crisi cubana del 1962, il presidente John Kennedy non usò soltanto la minaccia di un attacco ma anche un negoziato strutturato. Operò su due livelli: il negoziato con Mosca e l’altro con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale. Infine, il successo della gestione della crisi nucleare sarebbe da ricercare nel giusto equilibrio tra minaccia e compromesso per evitare ogni dannoso conflitto che potrebbe estendersi rapidamente.
La fine dell’isolamento di Teheran, con il riavvicinamento con Washington e i colloqui sul nucleare, sembra far presagire la conclusione di una fase in cui un attacco militare all’Iran sembrava sempre imminente. Tuttavia, non si tratta della conclusione di un contenzioso che coinvolge l’intera regione, prima di tutto il conflitto in Siria e le crisi irachena e afghana, ma di una tappa verso una nuova pagina di compromesso tra Stati Uniti e Repubblica islamica.