Anche la Cina prova ad agganciare la grande rivoluzione dello shale gas. Pechino vuole puntare con decisione sugli idrocarburi estratti dalle rocce attraverso la perforazione idraulica. Secondo stime del governo, all’interno dei confini nazionali sarebbero custodite le più grandi riserve al mondo di gas di scisto. Lo scorso anno il Ministero delle risorse del suolo ha reso pubbliche alcune stime preliminari che parlano di riserve esplorabili di shale gas per 25,1 trilioni di metri cubi. Anche le stime dell’EIA (Energy Information Administration), la sezione statistica del dipartimento dell’Energia americana, confermano l’enorme disponibilità di gas non convenzionale. A gennaio del 2013 Pechino ha assegnato permessi per effettuare esplorazioni sul territorio cinese (qui le mappe).
Anche l’Eni sarà della partita. A marzo, l’azienda italiana ha ceduto alla cinese CNPC (China National Petroleum Corporation) il 20 per cento della sua partecipazione azionaria nel gigantesco giacimento offshore in Mozambico. Contemporaneamente, Eni ha raggiunto un accordo per lo sviluppo del giacimento di shale gas di Rongchang, nella regione del Sichuan, la zona più promettente dell’intera Cina. Nel 2011, il 12esimo Piano quinquennale (il documento che determina le linee guida dalla politica economica ufficiale del partito comunista) ha fissato l’ambizioso target di produrre 6,5 miliardi di metri cubi di shale gas nel 2015 ,per arrivare a 100 miliardi di metri cubi nel 2020.
Un obiettivo decisamente ambizioso. «Le compagnie cinesi che si occupano di esplorazioni e perforazioni non sono ancora tecnicamente in grado di operare sul tipo di roccia e terreno presenti nelle zone dove sono state scoperte le nuove riserve», spiega a Linkiesta Luigi Placidi, International Business Development della cinese HuaYi Engineering Company, azienda parastatale che fornisce anche tecnologia e servizi di ingegneria alle grandi imprese che si occupano di esplorazione del sottosuolo. Infatti, nonostante la collaborazione con multinazionali straniere come l’olandese Royal Dutch Shell e l’americana Conoco Philips, le aziende cinesi hanno trovato difficoltà nell’utilizzare le più moderne tecnologie. Il governo cinese sta attuando una sorta di misure protezionistiche, per evitare che le compagnie straniere approfittino del temporaneo svantaggio tecnologico cinese. Una condizione che non dovrebbe durare ancora a lungo. Da Shanghai, l’ingegnere italiano spiega che «le stesse compagnie cinesi stanno costituendo task force ad hoc per superare gli ostacoli tecnici». Se non dovesse bastare, «la Repubblica popolare ha già pronto il piano B. Costituire joint venture tra aziende straniere e cinesi».
A settembre la Shaanxi Yanchang Petroleum, quarto produttore nazionale di gas, controllata direttamente dal governo della provincia di Shaanxi, ha acquisito la Novus Energy, società canadese di dimensioni contenute ma altamente specializzata. Una mossa che consentirà ai cinesi l’accesso a metodi più sofisticati di estrazione e a tecniche di frantumazione idraulica e perforazione verticale all’avanguardia. Nonostante questo, la Cina è ancora distante anni dall’acquisire capacità tali da produrre tanto gas intrappolato nelle formazioni rocciose quanto ne vorrebbe, scrive Stratfor , l’agenzia privata di intelligence considerata la principale organizzazione di informazione strategica e politica al mondo.
Entrare definitivamente nel mercato dello shale gas avrebbe conseguenze rilevantissime per la Cina. Non solo perché gli Stati Uniti, principale concorrente geopolitico ed economico di Pechino, sembrano destinati all’indipendenza energetica proprio grazie allo sfruttamento delle risorse domestiche di shale gas. Riuscire a fare progressi con lo shale gas significherebbe ridurre drasticamente l’utilizzo del carbone, che copre quasi l’80 per cento della produzione cinese e che comporta gravi conseguenze a livello di inquinamento. Altro vantaggio fondamentale sarebbe quello di ridurre la dipendenza dall’estero. Secondo la EIA, le importazioni di petrolio estero della Cina a settembre erano arrivate a 6,3 milioni di barili al giorno. Questa tendenza dovrebbe proseguire per tutto il 2014, facendo diventare la Cina il primo importatore di petrolio. AGC Communication riporta i dati del Brookings Institute sullo strettissimo legame tra la Cina i Paesi produttori del Medio Oriente. Secondo i numeri dell’istituto di Washington la Cina importa più petrolio dal Medio Oriente (principalmente da Arabia Saudita e Iraq) di qualsiasi altro Paese. Questo enorme flusso di greggio, circa l’80 percento del greggio importato dall’ex Impero di mezzo, arriva in Cina dopo un lungo viaggio via mare. Per garantirsi il controllo delle rotte e la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, Pechino negli ultimi due decenni ha lavorato alacremente per realizzare la strategia del “filo di perle”.
Cioè il rafforzamento delle relazioni politico-commerciali con i paesi della fascia costiera asiatica che va dal Mar Rosso fino all’Indocina. La rotta obbligata per le petroliere in arrivo da Golfo Persico è quella che passa per lo Stretto di Malacca, un collo di bottiglia che misura meno di tre chilometri nel punto di massimo restringimento, esposto quindi a collisioni tra navi ma anche ad attacchi e dirottamenti. La riduzione della dipendenza dalle importazioni di petrolio che passa per lo sviluppo dello shale (assieme alle forniture di gas e petrolio convenzionale in arrivo dalla Russia e dal Sud-Est asiatico) è una questione vitale per la Cina. Garantire il costante e regolare afflusso degli idrocarburi necessari per alimentare la crescita cinese è una questione che riguarda direttamente la legittimazione interna e la stabilità del partito comunista e della nomenklatura.