L’ottimismo di Saccomanni è smentito dai dati

La lunga crisi italiana

Dall’assordante silenzio di Giulio Tremonti all’ineguagliabile ottimismo di Fabrizio Saccomanni, il passo è stato breve. Eppure, l’economia italiana è quella di sempre. La recessione lascerà spazio a una crescita anemica, che farà compagnia a un debito pubblico stabilmente oltre i 2.000 miliardi di euro e a un tessuto industriale divorato dal credit crunch e dalla mancanza di ordini interni. Lo scenario che si prospetta per l’Italia non è facile, specie considerando il calo degli investimenti esteri e la contrazione del tasso netto di risparmio delle famiglie italiane, ai minimi dagli anni Ottanta

L’evidenza è che la recessione, nonostante sia vicina alla fine, lascerà spazio a una stagnazione che potrebbe far più danni che mai. I dati dell’Istat dimostrano che dall’inizio della crisi, agosto 2007, il calo del Prodotto interno lordo (Pil) è stato di circa 8 punti percentuali. Non potrà quindi essere un timido 0,7% di crescita prevista per il 2014 a risolvere la situazione. Anzi, secondo la banca statunitense Goldman Sachs, la crescita del Pil potrebbe essere ancora più bassa, 0,4 per cento. Eppure, il ministro delle Finanze è sicuro: la luce in fondo al tunnel non è un miraggio. Anzi, la crescita economica dovrebbe palesarsi in Italia già in quest’ultimo trimestre. Ciò che si dimentica di affermare, però, è che sarà un’espansione data dall’export, e non dalla domanda interna. L’operato di Saccomanni è stato duramente criticato, seppur a livello confidenziale, dal commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn, che nelle scorse settimane ha fatto visita al ministro italiano. «C’è troppo ottimismo, meglio tenere un basso profilo», è stato il monito a porte chiuse di Rehn. Parole che, raccontano i bene informati, hanno lasciato di stucco Saccomanni, che ritiene con certezza che il peggio sia passato. 

Certo, c’è un qualche sussulto dell’attività economica italiana, ma bisogna fare i conti con ciò che c’è stato finora. Il Pil in pesante contrazione negli ultimi cinque anni, la produzione industriale idem, per esempio. Ma ciò che dovrebbe spaventare di più, specie in un’ottica di lungo periodo, sono altri due dati. Il primo sono gli investimenti esteri diretti, o Foreign direct investment (Fdi). Secondo l’ultimo rapporto sul tema a cura dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il declino dei flussi è netto. Nel 2008, complice il collasso di Lehman Brothers, la tendenza è stata al ribasso, meno 10,8 miliardi di dollari. Nel 2009 il flusso è tornato a essere positivo, circa 20 miliardi di dollari di Fdi, mentre nel 2010 il calo è stato evidente, con soli 9,2 miliardi giunti in Italia sotto forma di investimenti. Nel 2011 il record degli ultimi cinque anni, con un flow di 34,4 miliardi di dollari. L’anno scorso, l’ennesimo calo, a quota 16 miliardi di dollari. Fare un paragone con Francia e Germania è pesante. Parigi ha attratto investimenti per 64,1 miliardi di dollari nel 2008, per 24,2 miliardi nel 2009, per 33,6 miliardi nel 2010, per 38,6 miliardi nel 2011 e per 25,1 miliardi nell’anno scorso. Di contro, la Germania ha visto una notevole fluttuazione negli ultimi cinque anni. Il 2012 si è infatti rivelato peggiore del 2008 sotto il profilo degli Fdi: 6,6 miliardi di dollari contro gli 8,1 miliardi di cinque anni fa. Tuttavia, il triennio 2009-2010-2011 è stato a doppia cifra: 22,5 miliardi di dollari, 57,4 miliardi, 49 miliardi. Ancora più netto il divario fra Italia e Spagna. Madrid ha attratto miliardi di miliardi negli ultimi cinque anni. Il rapporto dell’Ocse evidenzia che nel 2008 gli Fdi verso la Spagna sono ammontati a 76,8 miliardi di dollari. Nel 2009 il calo, dovuto al congelamento dei mercati finanziari post-Lehman, a quota 10,4 miliardi di dollari, poi nel 2010 la ripresa, netta, a 39,9 miliardi. Trend in discesa, ma comunque sostenuto, per 2011 e 2012, rispettivamente a 26,8 miliardi di dollari e 27,1 miliardi. Non bisogna poi stupirsi se così poche imprese estere decidono di investire in Italia. La domanda cruciale è: basterà il piano Destinazione Italia a invertire la rotta? Difficile, se non impossibile, senza un esecutivo capace di fornire stabilità al Paese e chiarezza agli investitori. 

L’altro elemento di disagio è legato al risparmio delle famiglie. Sono lontani i tempi in cui il tasso netto di risparmio delle famiglie italiane era superiore al 20% del reddito disponibile. Erano, per la precisione, gli anni Ottanta. All’inizio della crisi attuale, riconducibile all’agosto 2007, il tasso in questione era all’8,9 per cento. Il declino è stato molto veloce, dal 7,1% registrato nel 2009 al 4,9% dell’anno successivo al 3,4% del 2012, il punto più basso degli ultimi 30 anni, secondo i dati Ocse. Solo nel 2013 il tasso di risparmio è salito, e dovrebbe chiudere l’anno a quota 3,9 per cento. Ma il peggio deve ancora venire, perché secondo l’organizzazione parigina nel prossimo anno dovrebbe esserci una lieve contrazione di un decimale. È questa la prova dell’erosione della ricchezza delle famiglie italiane. Sono infatti loro il vero cuscinetto di protezione durante le crisi, il primo ammortizzatore sociale esistente sul territorio nazionale.

Anche in questo caso, il paragone con la Germania è penalizzante per l’Italia. Nel 2007 il tasso netto di risparmio delle famiglie tedesche era dell’11% del reddito disponibile, secondo i dati Ocse. La percentuale è rimasta stabile dal 2007 a oggi, perdendo solo un punto percentuale. E nel 2014? Si toccherà il tasso minimo degli ultimi sette anni, a quota 10,1 per cento. Tuttavia, le aspettative dell’Ocse sono per una ripresa a partire dal 2015. Sull’onda dell’Italia, però, ci sono Olanda e Irlanda. Ma anche gli Stati Uniti.

Il declino dell’Italia si può quindi vedere con occhi diversi, lontani dai soliti Pil e disoccupazione. Nell’autunno del 2011, nei giorni neri dello spread, l’allora ministro delle Finanze Tremonti cercò di evitare dichiarazioni che potevano ledere alla credibilità, precaria, dell’Italia. Il suo successore, Vittorio Grilli, fece un’operazione analoga. Di contro, Saccomanni diffonde un ottimismo che già ora è messo in discussione dagli investitori internazionali. Proprio ciò che non serve in questo momento al Paese

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