Non condannate internet: il problema siamo noi

Il dibattito

All’inizio di un lungo articolo pubblicato un mese fa sul Guardian, lo scrittore americano Jonathan Franzen ripercorre la storia di Karl Kraus, l’autore satirico viennese che fu direttore, nonché unico autore dal 1911 in poi, della rivista letteraria Die Fackel: una sorta di antesignano dei moderni blog, un contenitore delle riflessioni – spesso argute, talvolta geniali – di una delle penne mitteleuropee più taglienti in attività all’inizio del secolo scorso. 

Nell’articolo Franzen, attraverso le teorie di Kraus, se la prende con quello che lui stesso definisce “il mondo moderno”, e cioè un mondo tecnologicamente avanzato, un mondo interconnesso, un mondo i cui abitanti «non sanno affrontare i problemi reali», come ad esempio il proliferare delle guerre e dei costi della sanità, ma «sono tutti d’accordo nel consegnarsi ai nuovi media e alle tecnologie cool, a Steve Jobs, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos».

L’arringa di Franzen si scaglia contro «i tecnoidealisti degli anni novanta», quelli che «promettevano che Internet avrebbe inaugurato un nuovo mondo di pace, amore e comprensione» e punta il dito contro «la stupidità di Twitter» e la società «tecnoconsumistica» composta da «tecnoentusiasti» e governata da «tecnotitani», una società che ci sospinge verso una involuzione progressiva: «È difficile oggi cenare con amici senza che qualcuno tiri fuori un iPhone per richiamare alla mente qualcosa che un tempo era il cervello a dover ricordare». 

Lo scrittore di Western Springs ha parole di fuoco anche per Jeff Bezos, il «cavaliere dell’Apocalisse» fondatore di Amazon, accusato di aver dato vita a «un mondo in cui avranno successo le opere di chiacchieroni, twittatori e millantatori». Quello disegnato dal demiurgo Bezos è, secondo Franzen, un pianeta disumanizzato; condizione, questa, causata dalla tecnologia, partorita dagli esseri umani stessi. Dai salotti viennesi d’inizio novecento, spiega l’autore de Le Correzioni, Karl Kraus aveva previsto tutto, o quasi.

Nel 1957, Max Frisch scriveva: «La tecnologia è l’abilità di organizzare il mondo in modo tale che non siamo costretti a viverlo davvero». In quello stesso anno, Alessandro Faedo e Marcello Conversi davano vita alla Calcolatrice Elettronica Pisana, progenitrice italiana del personal computer. Cinque anni dopo, Joseph Licklider e Welden Clark avrebbero teorizzato (o meglio, ipotizzato) per la prima volta l’esistenza di una rete globale di computer interconessi: una visione, contenuta nel saggio “On-line man computer communication” (1962), che si sarebbe incarnata alla fine del decennio in Arpanet, il bisnonno di internet.

Frisch in Homo Faber toccò questioni cruciali, ancora oggi al centro del dibattito: se la tecnologia ci stia allontanando da una conoscenza esperienziale reale del mondo; e se internet, gli smartphone e i computer stiano radicalmente stravolgendo – e in alcuni casi azzerando – la nostra esistenza offline. La nascita di nuove patologie come il tecnostress (due milioni di italiani ne soffrono, secondo Netdipendenza Onlus), dovrebbe non solo farci riflettere e discutere sulle implicazioni e le ripercussioni dell’ipertecnologia sulla nostra quotidianità, ma anche farci preoccupare.

Ma cos’è, in fondo, internet? Zuckerberg lo ha definito “un diritto naturale dell’uomo”. L’accesso alla rete, secondo il CEO di Facebook, dovrebbe essere garantito a tutti. Per questo, l’imprenditore 29enne ha fondato, insieme ad altri illustri partner tra cui figurano Ericsson, Nokia e Samsung, Internet.org, un progetto che si prefigge di portare internet in tutto il mondo, colmando il digital divide nelle aree più povere e geograficamente inaccessibili del pianeta. Ci sono alcuni interrogativi che affiorano dalla superficie di questa iniziativa dal presunto valore “umanitario”.

In primo luogo, il fatto che Zuckerberg e i suoi partner abbiano al momento soltanto un «vago progetto» di come sviluppare il processo di digitalizzazione globale. In secondo luogo, gli interessi sottintesi: l’esportazione di internet nel terzo mondo significa maggiore diffusione della conoscenza, certo, ma anche la creazione di nuovi enormi mercati per i prodotti tecnologici e per gli strumenti sviluppati da Facebook e dalle altre aziende coinvolte. Zuckerberg sa che, alla diminuzione del digital divide, corrisponderà un ingrossamento del suo portafogli.

Sulla questione è intervenuto anche Bill Gates, uno che di progetti ambiziosi a livello tecnologico ne ha portati a compimento parecchi durante la sua carriera. Al Financial Times, il fondatore di Microsoft ha detto: «L’espansione della rete una “priorità” mondiale? Non scherziamo». Gates ha messo a confronto il progetto di Internet.org con la sua attività umanitaria all’interno della Bill & Melinda Gates Foundation: «Cos’è più importante, la connettività mondiale o il vaccino per la malaria? Se qualcuno pensa che la connessione al web sia l’elemento chiave, ottimo, buon per lui. Io non condivido».

Una presa di posizione forse contraddittoria, per uno che si definisce “tecnocrate”. Da un lato Gates ha ragione, un vaccino per la malaria può salvare 660.000 mila persone all’anno: questo lo rende, senza dubbio, una priorità. Dall’altro, però, internet può aiutare a diffondere informazioni sulla malattia (e sul modo di prevenirla e curarla) nelle aree più arretrate del mondo, dove vivono le popolazioni più colpite dall’infezione letale. Senza τεχνη, la tecnica, non esiste κράτος, il potere. E «tantum possumus quantum scimus», la Storia lo insegna. Gates e Zuckerberg lo sanno entrambi, ma declinano l’idea diversamente, dando vita ad un dibattito più interessante per i titolisti dei giornali che per i suoi effettivi contenuti.

Qualcuno lo ha definito uno scontro generazionale tra una visione più conservatrice ed una più futuristica dell’innovazione. Può darsi, ma non per forza questo deve portare ad un contrasto: lo sviluppo tecnologico è basato sulla forza delle idee e delle grandi ambizioni. Pochi giorni fa a Berlino, il CEO di Microsoft Steve Ballmer, rivolgendosi ad una platea di giovani imprenditori tecnologici presenti all’inaugurazione del nuovo quartier generale tedesco dell’azienda, ha pronunciato queste parole: «Innamoratevi dell’idea alla base della vostra startup, ma chiedetevi oggettivamente se possa interessare ad un numero sufficientemente grande di persone e se possa servire a migliorare la loro vita in modo significativo. Se possa creare, cioè, un valore reale».

Chissà se Ballmer ha discusso con il suo presidente, Bill Gates, le implicazioni a largo spettro di questo ragionamento; chissà se lo ha applicato all’esempio della diffusione di un vaccino o di un innovativo router wi-fi. Chissà se internet ha davvero il potere di renderci stupidi e immaturi a livello comunicativo, come ha sostenuto Noam Chomsky in un video pubblicato recentemente su Youtube. Chissà se Mark Zuckerberg è sincero, quando pone internet tra i diritti fondamentali dell’uomo, o se sotto sotto sta pensando al suo tornaconto personale. Chissà se Jonathan Franzen sa che il suo libro dedicato ai saggi di Kraus ha venduto centinaia di copie proprio su Amazon. In versione cartacea (18$) e digitale (17$).

Come spesso accade, la colpa (se di “colpa” si vuole parlare) è estrinseca: non risiede nella tecnologia in sé, ma nell’utilizzo che ognuno di noi ne fa quotidianamente. L’evoluzione tecnologica dell’umanità, scrisse Raymond Kurzweil nel suo “The Singularity Is Near”, ci spinge in una direzione ben definita caratterizzata da «una maggiore complessità, una maggiore eleganza, una maggiore conoscenza, una maggiore intelligenza, una maggiore bellezza, una maggiore creatività». Kurzweil studiò ed elaborò concetti come la singolarità tecnologica e il transumanesimo, teoria secondo cui le scoperte scientifico-tecnologiche (anche quelle più controverse) forniscono all’uomo l’accesso a una maggiore capacità cognitiva e alla capacità di sconfiggere gli aspetti meno piacevoli della condizione umana: la malattia, l’invecchiamento, magari la morte.

È qui che ritorna in gioco Bill Gates. Il tecnocrate che allo stesso tempo rinnega e sostiene le teorie Malthusiane – ricordiamo le sue campagne a favore dell’aborto e della riduzione delle nascite nei Paesi africani attraverso (anche) la distribuzione gratuita di decine di migliaia di preservativi – incarna la duplice inclinazione della tecnologia: la sua spinta innovatrice e “curativa” da un lato, la sua deriva totalizzante e “infettiva” dall’altro. Internet è causa e conseguenza con lati positivi e negativi, anche e soprattutto perché è un’entità che sfugge al controllo unitario dell’uomo, almeno nella sua forma liquida e orizzontale. Le qualità del mondo tecnologico pronosticato da Kurzweil sono miglioramenti che tendono verso l’infinito, senza però arrivarci mai: «Nemmeno la crescita accelerata dell’evoluzione giunge mai all’infinito. L’evoluzione si muove inesorabilmente verso questa concezione ideale di Dio, senza però raggiungerla mai».

Possiamo chiederci se internet faccia bene o male. Forse però la domanda è posta nel modo sbagliato. Anche la missione aziendale di Google di per sé è lodevole («Organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili»), ma sulle modalità della sua applicazione concreta abbiamo qualcosa da ridire. Se Karl Kraus fosse oggi ancora vivo, vedrebbe probabilmente la questione in questi termini: «Internet è quella malattia mentale di cui ritiene essere la terapia». E Jonathan Franzen, almeno lui, si sentirebbe un po’ meno solo.

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