Prendi una vecchia focaccia natalizia tradizionale, un “pane grande”, “pane giallo”, “pane d’oro”, o come diavolo si chiamava, riempila di burro e uova, iniettala di lievito e vedrei che si gonfierà a dismisura: diventerà un panettone, o un pandoro, che è lo stesso. No, non è lo stesso dolce, ma è il medesimo il procedimento con cui due personaggi di genio, Angelo Motta a Milano e Domenico Melegatti a Verona, hanno trasformato un prodotto artigianale di alta gamma in un dolce industriale di massa, uno dei maggiori successi del made in Italy gastronomico.
Intanto sgomberiamo il campo da tutte leggende. Il pane di Toni, il duca Sforza, l’amore di un giovane nobile per una bella fornaia: sono tutte balle. La storia della gastronomia è piena di leggende senza un briciolo di verità: tipo la lettera del feldmaresciallo Radetzky che magnificherebbe le doti della cotoletta alla milanese facendola poi diventare la Wiener Schnitzel (la lettera, semplicemente, non esiste) o Caterina de’ Medici che sposando Enrico II di Francia si sarebbe portata a Parigi i cuochi fiorentini (non c’è alcuna prova che i cuochi di corte fossero italiani, invece è certo che i ricettari erano normalmente tradotti nelle maggiori lingue del tempo). Quella del panettone è soltanto una leggenda fra le tante.
In Italia si facevano dolci di Natale un po’ dappertutto; alcuni, sono sopravvissuti, tipo il panforte di Siena, o il pampepato umbro-laziale. Nella Milano dell’Ottocento, che si avvia a diventare città industriale e dove si forma una borghesia con alto potere d’acquisto, alcuni pasticceri cominciano ad arricchire il pane di Natale con uvette e canditi. Diventa il “pane grande” o “panettone”. Alcuni dei loro nomi sono ben conosciuti anche oggi ai milanesi: Cova, Biffi, Marchesi (è più buono il panettone di Cova o quello di Marchesi? Milano si spacca, come su Milan e Inter). Non c’è più Giuseppe Baj, in piazza Duomo, e anche l’Industria dolciaria Berlusconi & Cremonesi è sparita da un pezzo. Le Tre Marie apre una bottega in corso Vittorio Emanuele, dove un veronese un po’ pazzo apre pure la sua di bottega e si mette a vender pandori: porta la lotta nel cuore del territorio nemico.
Domenico Melegatti nel 1894 brevetta un nuovo dolce: lo chiama pan d’oro, richiamandosi al fatto che ai tempi della Serenissima nei banchetti aristocratici si portavano in tavola pani coperti da foglia d’oro, tanto per far scena (d’altra parte Gualtiero Marchesi in tempi ben più recenti ha a lungo preparato il risotto alla milanese con foglia d’oro). Derivava dal “nadalin”, un dolce a forma di stella, ma più basso; secondo altri l’origine sarebbe nel Wiener Brot, portato dai cuochi reggimentali austriaci che fino al 1866 erano di stanza a Verona. Melegatti dopa il “nadalin”, lo gonfia talmente tanto che per farlo star su mentre si cuoce lo deve mettere dentro uno stampo e gli dà la forma di stella a otto punte. E poi niente uvette, mandorle, granella di zucchero, tutta roba che impedisce alla pasta di lievitare fino al limite estremo. Un geniaccio, Melegatti, che nella sua bottega, visto che c’è, vende pure caramelle ripiene di carne e carne in polvere solubile per fare il brodo, ovviamente inventate da lui.
Come geniaccio è pure Angelo Motta: apre una bottega nel 1919 che diventa sempre più grande, così come il suo panettone diventa sempre più alto (e anche questo ha bisogno di un supporto per crescere: una corona di carta attorno alla pasta da infornare). Fa a Milano più o meno la stessa cosa che aveva fatto Melegatti a Verona: prende il dolce natalizio locale e lo dopa. Ma Milan l’è un gran Milan, e c’è anche la possibilità di fare altro, per esempio di far disegnare un manifesto a uno dei più importanti grafici del tempo, Severino Pozzati, in arte Sepo. Ne esce la grande “M” rossa che fa da sfondo a un panettone tagliato a metà, con cinque fette che scendono a cascata. Siamo nel 1934 e la M, in quegli anni, indica pure qualcos’altro. Il panettone si identifica con il regime fascista.
Anche la Melegatti (Domenico è morto nel 1914) ci prova a disegnare una M che sale dall’Arena, ma Verona non è Milano e la grafica non diventa un mito. Ormai l’identificazione tra Milano e il panettone è totale: il profilo del dolce è sovrapposto a quello del duomo e la M vuol dire Motta, Milano e pure Mussolini. Il panettone diventa alto e sopravvive alla guerra, Motta è un personaggino fumantino, altro che il buonismo delle sue pubblicità: quando si arrabbia perché il panettone non è buono come dice lui, rovescia per terra i carrelli pieni di prodotto. L’industriale Mobbi, che Vittorio De Sica immortala nel 1951 con Miracolo a Milano, il cattivone che fa sloggiare i baraccati con la polizia, è proprio lui: l’Angelone, che muore da lì a pochi anni, nel 1957, il 26 dicembre, il giorno dopo Natale.
La concorrenza, si sa, aiuta e a Milano arriva Gioacchino Alemagna che si mette in coda a Motta. I due si copiano l’un l’altro e in questo modo continuano a migliorarsi. A Verona si mette a far pandori Ruggero Bauli. Una storia incredibile, la sua: sopravvissuto due volte, prima alle trincee del Carso, poi al naufragio del “Principessa Mafalda”, il transatlantico italiano che cola a picco nel 1927, al largo di Rio de Janeiro, trascinando in fondo al mare 314 persone (ma alcuni giornali dell’epoca ipotizzano 600 vittime). Ruggero Bauli galleggiagia in acqua due ore, ma poi lo raccolgono. Però perde tutti i macchinari da pasticceria che voleva portarsi in Sudamerica per tentare la fortuna. Va a fare il tassista a Rio e poi il pasticcere a Buenos Aires, torna a Verona dopo dieci anni con un bel gruzzoletto con il quale riapre la sua attività di pasticceria.
Bravo era lui e bravi saranno i suoi discendenti: oggi è la Bauli – che produce anche panettoni – l’azienda leader del settore dei dolci da ricorrenza. E le cose cambiano parecchio: dopo il passaggio di Motta e Alemagna alla Sme e poi alla Nestlé, il panettone esce da Milano. E dove si produce? Ebbene sì, in provincia di Verona, proprio nella tana del nemico pandoro. Oggi l’unico marchio rimasto a Milano è Le Tre Marie. Un posto d’onore tocca ai piemontesi che dagli anni Venti si mettono pure loro a far panettoni, e con grande successo: Balocco, Maina e pure il resuscitato Galup, sono marchi che ancora allietano i nostri Natali. A Verona funziona una quadriga: Bauli, Melegatti, Paluani, Dal Colle.
E poi c’è una schiera di artigiani che sfornano (e il caso di dirlo) panettoni da favola: quello farcito con la crema chantilly, di Zizzola, a Resana, in provincia di Treviso; quello con le olive candite della Sammarco, a San Marco in Lamis, provincia di Foggia; quello all’olio d’oliva (gli intolleranti al lattosio ringraziano) di Filippi, a Zanè, in provincia di Vicenza, e quelli che da qualche anno si disputano il titolo di panettone migliore d’Italia: prodotti dalle pasticcerie Pinuccia, di Teresio Busnelli, ad Arluno, e dalla Besuschio, ad Abbiategrasso, entrambe in provincia di Milano.
L’anno scorso noi italiani abbiamo ingurgitato 98 milioni di dolci natalizi; 49 per cento di panettoni tradizionali, 35 per cento di pandori, 16 per cento di prodotti speciali (farciti, ricoperti, e quant’altro). Una torta da quasi 600 milioni di euro, con 25 aziende produttrici e quasi 5mila dipendenti: 950 fissi e 4mila stagionali. Buon Natale.