Zhu Changhong, il “chief investment officer” della State Administration of Foreign Exchange (Safe), l’agenzia che gestisce 3.800 miliardi di dollari di riserve cinesi in valuta estera, si è dimesso. Detto “l’uomo invisibile” perché non gradisce apparire in pubblico e di lui circola una foto che risale agli anni degli studi, Zhu ci ricorda lo stile riservato del fu Enrico Cuccia ma, a differenza del banchiere italiano, è entrato e poi uscito nella stanza dei bottoni in età molto più verde: ha solo 44 anni.
È lui l’uomo che ha cominciato a svuotare i forzieri cinesi dai bond del tesoro Usa, cercando di emancipare la Cina dalle politiche della Federal Reserve e diversificando gli asset in una più ampia gamma di valute, debito societario, private equity, proprietà e investimenti strategici. Sta di fatto che a fine giugno 2012 – data a cui risalgono i numeri più recenti – la porzione di asset in dollari delle riserve cinesi era scesa al 49 per cento del totale, contro il 69 per cento di tre anni prima, quando l’era di Zhu era ancora di là da venire. Ora, ci si chiede il perché del suo abbandono.
Fino al 2009 eravamo nell’era “dei galeotti incatenati” (formula coniata dal sociologo filippino Walden Bello): come due carcerati con la palla al piede, Cina e Usa avevano messo su un sistema economico bipolare e inscindibile in cui il Dragone inondava l’Occidente di merci a basso costo, gli americani (e pure noi) le acquistavano, si indebitavano, emettevano buoni del tesoro e Pechino li ricomprava. Un gioco a rimpiattino che aveva il merito, tra le altre cose, di rivalutare i nostri salari grazie alla funzione disinflattiva degli economici prodotti made in China. Poi venne la crisi e la Fed di Bernanke decise che il modo migliore per rilanciare la boccheggiante economia Usa fosse quello di svalutare il dollaro. “Accidenti – dissero a Pechino – stai a vedere che ci troviamo i forzieri improvvisamente pieni di carta straccia”. Fu così che la Cina, dove essersi copiosamente risentita e lamentata con la controparte, cominciò a diversificare i proventi del suo grande surplus commerciale.
Il compito di Zhu, assunto dalla Safe nel 2009, è stato proprio quello di assicurare che le considerevoli riserve estere del Dragone crescessero stabilmente: non solo quantitativamente, ma anche in valore effettivo. Il suo curriculum era eclettico. Laureato in fisica, aveva cominciato a lavorare a Bank of America negli Usa, per poi passare nel 1999 al gigante degli investimenti Pacific Investment Management Co. (Pimco), dove divenne braccio destro di Bill Gross, considerato il più importante investitore in bond Usa. Dopo il crollo del mercato immobiliare dovuto ai mutui subprime, Pimco colloborò con il governo federale per ristrutturare il settore. E Zhu era lì. Nel suo passaggio alla Safe, fu quindi reclutato personalmente dal direttore dell’agenzia cinese, Yi Gang.
Con la sua strategia a tutto campo, il giovane “chief investment officer” ha via via oscurato il ruolo della China Investment Corporation (Cic), il grande fondo sovrano cinese, fondato nel 2007 come il veicolo primario per diversificare gli asset in valuta estera. Cic ha il mandato specifico di ottimizzare gli investimenti basati sulle riserve valutarie, ma nel corso degli anni ha preso qualche granchio, con ritorni negativi nel 2008 (-2,15%) e nel 2011 (-4,3%), prima della ripresa registrata nel 2012 (+10%). Nel frattempo, le è toccato pure di ricapitalizzare le banche cinesi in crisi di liquidità. Inoltre è controllata dal ministero delle Finanze, mentre Safe opera sotto l’egida della banca centrale: esiste quindi una sorta di rivalità tra apparati, all’interno dell’opaco mondo della nomenklatura cinese e dei suoi interessi costituiti. In teoria, Safe avrebbe dovuto consegnare parte delle proprie riserve nelle mani di Cic, “braccio armato” degli investimenti. Ma ha sempre fatto resistenze e le ottime performance di Zhu le hanno offerto un’ottima giustificazione: perché dare soldi a quelli lì, se investiamo molto meglio noi?
Secondo alcuni osservatori, le dimissioni del giovane drago della finanza avrebbero quindi a che fare con le beghe interne alle agenzie di Stato. Lui, di formazione efficientista anglosassone, sarebbe molto semplicemente stufo di doversi misurare di continuo con guanxi (reti relazionali) e rapporti di forza. Ma la sua uscita di scena può anche essere letta in chiave più politica e cioè come tassello di quell’accentramento dei poteri che il presidente Xi Jinping starebbe effettuando in queste settimane.
Proprio in parallelo con l’addio del manager Sec, il governo di Pechino ha infatti annunciato la creazione di una nuova agenzia, collegata alla neonata Commissione di Sicurezza Nazionale, che si occuperà di sorvegliare i mercati. Sarà sotto il controllo diretto di Xi e si dedicherà a “minacce” per il sistema finanziario, come i crediti tossici, le bolle speculative, la fuga all’estero di capitali cinesi (spesso con relativi possessori a ruota), l’instabilità del mercato azionario e i flussi di “hot money” provenienti dall’estero, che vanno a ingrossare quel ribollente e anarchico brodo primordiale che va sotto il nome di “credito ombra”. In pratica, la Cina non vuole importare speculazione sotto forma di quei capitali a breve termine che, lungi dal finire nell’economia reale, si limitano a speculare sugli indici azionari (prodotti derivati, short selling e così via). Guarda caso, fino a ieri era proprio la Sec ad avere il compito di indagare su queste attività.
La sensazione che un rimpasto generale sia comunque in corso è confermata del resto dalle annunciate dimissioni di Gao Xiqing, presidente e fondatore della Cic, per sopraggiunti limiti di età. Gao fu tra i primi enfant prodige mandati a studiare negli Usa durante gli anni Ottanta, ma il suo appoggio alle proteste di piazza Tian’anmen nel 1989, gli hanno sempre precluso una carriera più politica.
Ne esce l’immagine di una leadership cinese che vuole spingere sull’acceleratore delle riforme mantenendo saldo il timone, per evitare rischi destabilizzanti. Perde però per strada qualche eccellenza individuale. A meno che Zhu se ne sia andato proprio un attimo prima che il castello di carte si sgretoli. Ma questo, per ora, si tende a escluderlo.