Quando la carta del “rimpasto” non salvò Mussolini

Corsi e ricorsi storici

Quando un governo è in difficoltà, come quello attuale, si riaffaccia una parolina che per Matteo Renzi suona da Prima Repubblica: “Rimpasto”. Come se potesse bastare il cambio di qualche posizione ministeriale per poter raddrizzare una linea di governo. Certo quest’usanza politica risale a ben prima della Repubblica e ad usarla fu un personaggio poco propenso a giochini parlamentari. Che, come Enrico Letta, doveva affrontare una difficile situazione economica, una crescente impopolarità, una corruzione dilagante e il giudizio della Germania. E anche lui, diventato primo ministro in giovane età: Benito Mussolini. 

Alla fine del 1942 la sua finora ferrea tenuta sulle redini del paese sembra venir meno. Due sconfitte belliche decisive, El Alamein e Stalingrado, hanno fortemente minato il morale degli italiani, da molto tempo costretti a fare i conti con una carenza di beni alimentari e di farmaci. Chi ha abbastanza denaro da parte, ricorre al mercato nero, dove però i prezzi sono altissimi: il pane, da 1,8 lire al Kg nel 1938, passa a 8 lire e 50, mentre la pasta, che costava 3 lire prima della guerra passò a costarne 9. Il malumore nei confronti del governo cresce. 

Per sostenere le spese di guerra, il regime ha utilizzato qualunque strumento fiscale: dalla patrimoniale all’innalzamento dell’imposta sul reddito, dalla tassazione sulle rendite fino al prestito forzoso. La spesa pubblica nel sociale viene falcidiata. Mussolini, riguardo alle spese di guerra, aveva detto: «I denari li troveremo, a costo di far tabula rasa di tutto ciò che è vita civile». E di divieto in divieto, la corruzione dilaga. Tra i vari esponenti fascisti, tanto a Roma come in provincia, si moltiplicano le accuse giudiziarie non solo di “disfattismo”, ma anche di “affarismo” e “profitti personali”. La corruzione si diffonde a tutti i livelli. E la violazione delle leggi dello Stato, visto come Moloch oppressore che proibisce ai civili addirittura di bersi una birra, è diffusissima, favorendo un tracollo del senso civico. 

Mussolini, pur sostenendo la tragedia della guerra non gli togliesse il sonno, comunque era preoccupato per la percezione del suo governo, visto ormai come un covo di fanatici, di corrotti e di profittatori. All’inizio del 1943 cominciò a balenare in lui l’idea di un rimpasto, come un qualunque governo dell’Italietta liberale, da lui tanto disprezzata. Infatti meglio cambiare terminologia: un “cambio della guardia”, un “colpo di ramazza”, quasi da grillino antelitteram. 

La situazione finanziaria del paese non lasciava nemmeno presagire niente di buono, con un deficit previsto di 8 miliardi di lire, cui si tentò di fare fronte con una tassa del 30 per cento sugli affitti e si taglia lo stipendio dei lavoratori dell’industria bellica di un quarto. Decisamente troppo. Per non perire sotto un malcontento popolare crescente, il Duce decide di cambiare i ministri. Tutti, o quasi. Via Galeazzo Ciano, potentissimo ministro degli esteri, poco amato dalla Germania e dall’opinione pubblica, che lo vedeva come un ricco parvenu viziato, genero del Capo e figlio di un ex ministro. 

Via il ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, visto come fanatico e troppo professorale. Via il diplomatico Dino Grandi, ex squadrista e figlio di proprietari terrieri, ministro della Giustizia. Via anche Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione nazionale, visto come voce critica e contestatore potenziale del governo. Via anche il discusso Paolo Thaon Di Revel, visto come un gelido tecnocrate incapace di limitare sia l’inflazione galoppante che il crescente debito pubblico. Via anche quasi tutti gli altri ministri, eccetto Carlo Pareschi, ministro dell’Agricoltura, e Attilio Teruzzi, ministro dell’Africa Italiana ormai perduta. 

A sostituire queste figure controverse, un mix di volti nuovi e vecchie conoscenze, come a voler segnare una continuità con l’epoca della Marcia su Roma e del regime giovane e dinamico: al posto di Bottai, Carlo Alberto Biggini, rettore dell’Università di Pisa e docente di diritto costituzionale, di soli 41 anni. Al posto di Pavolini, invece, fedele ma troppo bizzarro, Gaetano Polverelli, già capo ufficio stampa di Palazzo Venezia e autore delle “veline” alla stampa. Al posto di Thaon di Revel alle finanze, invece, il ritorno di Giacomo Acerbo, autore della legge elettorale che garantì la prima maggioranza al Partito nazionale fascista ed esperto di agraria. E al posto di Ciano? Lo stesso Mussolini, ovviamente. La nuova compagine quindi era indubbiamente più grigia e più “centrista” della vecchia, pur mantenendo al suo interno elementi adatti a mantenere alto il livello propagandistico, con l’istituzione del ministero della produzione bellica, sul modello creato in Germania da Albert Speer. Ma non basterà. Grandi, ministro estromesso nel rimpasto, chiederà e otterrà qualche mese più tardi la convocazione dopo quattro anni del Gran Consiglio del Fascismo con qui si destituirà il governo di Mussolini.

Quindi, anche in un regime a partito unico, anche con i media a favore, anche con un vasto consenso, un rimpasto può servire a poco. Figuriamoci per un governo come quello di Letta che non gode di nessuna delle caratteristiche favorevoli citate poc’anzi. Si rischia solo di finire ben prima, del 25 luglio.

X