La settimana scorsa Giunti ha pubblicato Come fossi solo, il romanzo di esordio di un giovane narratore scoperto dal Premio Calvino che si chiama Marco Magini e che al Calvino, pur non vincendo, si è guadagnato – lo diciamo subito, con merito – una menzione d’onore. Perché Come fossi solo è un romanzo d’esordio ambizioso e molto potente che, pur con alcuni limiti, riapre una pagina della storia recente dell’Europa che in molti vorrebbero dimenticare: il massacro di Srebrenica, avvenuto in Bosnia nel luglio del 1995 ad opera dell’esercito serbo-bosniaco.
Affrontare la Storia con le armi del romanzo è sempre un affare complicato, se poi la Storia è quella di un massacro brutale, uno degli episodi più neri, cruenti e bestiali di una impietosa guerra civile come quella che ha fatto a pezzetti l’ex Jugoslavia, allora l’affare si trasforma in qualcosa di ancora più pesante e difficile.
Un passo laterale, che spero non vi spiazzi: nel film Leon c’è una scena in cui Jean Reno, iniziando la piccola Natalie Portman al mestiere del sicario, mette in ordine i modi di uccidere un uomo dal più facile al più difficile. «Il fucile è la prima arma che si impara ad usare», dice Leon, «perché ti permette di mantenere una certa distanza dal cliente. Più ti avvicini a diventare professionista, più riesci ad avvicinarti al cliente. Il coltello per esempio, è l’ultima cosa che si impara». Ecco, se scrivere un romanzo fosse un mestiere da sicario, Magini in questo caso sarebbe partito dalla cosa più difficile: l’arma bianca, quella che ti costringe a guardare la vittima negli occhi, e a non avere pietà.
Mi spiego: Come fossi solo non ha la distanza né di una rievocazione storica, né di un reportage narrativo. È una lotta all’arma bianca che lascia poco respiro, una lotta in cui Magini si è ritrovato a tu per tu con l’anima nera dell’uomo, un’anima terribile il cui sguardo ferino non è per niente facile da fissare. Ed è proprio quell’anima la protagonista del romanzo.
È vero, le voci che Magini fa intersecare sono quelle di tre uomini, tutti e tre coinvolti, da tre punti di vista diversi: il primo è Romeo, un magistrato spagnolo che fa parte della squadra del Tribunale penale internazionale che deve giudicare il secondo, Drazen, volontario mezzo croato e mezzo serbo della milizia serbo-bosniaca, unico imputato del battaglione che si rese protagonista del massacro di Srebrenica. Anche il terzo è un militare, ma si chiama Dirk, è olandese e a Srebrenica, al momento del massacro, c’era da osservatore, con un casco blu sulla testa.
Eppure i tre sono in fondo lo stesso uomo, sono diverse sfumature della stessa anima nera, quella che abbiamo tutti dentro, più o meno nascosta. Tutti e tre si sentono nel posto sbagliato, tanto per cominciare, tutti e tre vorrebbero cambiare l’esito della realtà che hanno di fronte, tutti e tre, pur facendo quel che possono, falliscono, si arrendono e si rendono complici delle storture del mondo. Il primo appoggiando una sentenza che non approva, il secondo diventando uno stupratore, un assassino, una bestia, il terzo assistendo all’orrore senza il coraggio di opporsi.
Questa è la forza del libro, è questa l’arma bianca che Magini usa per affrontare la realtà nera che si è scelto come banco di prova, e che – ormai l’avete capito – non si limita al massacro di Srebenica: è la cattiveria umana. E difatti tutti sono cattivi, lo è Rome, lo è Drik, lo è Drazen, lo è persino una delle vittime del massacro, un vecchio, l’unica delle vittime che nel romanzo di Magini prende un minimo di spessore e che non si limita ad essere una comparsa.
All’inizio di questa recensione ho scritto che il libro di Magini ha anche dei limiti: ecco, in realtà ho sbagliato a concordare il sostantivo, perché di limiti alla fine ce n’è soltanto uno, ed è un limite che, seppur grosso, alla fine – lo scopro solo ora, scrivendolo – in parte si giustifica nella grande forza di cui parlavo un paragrafo fa: i tre personaggi, pur essendo tre tipi umani diametralmente opposti tra di loro, parlano la stessa lingua.
Quando ho chiuso l’ultima pagina di questo romanzo credevo che fosse un grave errore, quello di Magini, un errore dettato dalla giovane età e dalla complessità della storia che ha maneggiato. Ora che ne scrivo, però, pur non avendo cambiato idea sull’inopportunità di usare un registro solo, facendo parlare un magistrato sessantenne spagnolo come un miliziano ventenne serbo-croato, in parte la giustifico.
Perché a ben vedere la lingua che parlano i tre è una lingua media, comune, che non si spinge mai né in alto né in basso. Forse è la stessa lingua perché i tre sono lo stesso personaggio. È media e comune. È come il male. È una lingua che conosciamo tutti, che conosce ogni uomo. E per quanto sia terribile, è dannatamente vero.