La quarta serata per Sanremo 2014 è quella buona. E finalmente, nonostante qualche stecca e diverse interpretazioni un po’ azzardate, si può finalmente tornare a parlare di musica d’autore. Non è un caso. In gara infatti non c’erano altro che i giovani. I big portavano sul palco dell’Ariston le canzoni che hanno fatto la storia della musica italiana. Con successo. Anche se alla fine sarà sempre l’audience che definirà il successo o meno di questa 64esima edizione del Festival. C’è da dire che Fabio Fazio e Luciana Littizzetto hanno tentato di invertire la rotta. Riuscendoci, in parte.
Partiamo dai numeri. Nella terza serata lo share medio è calato di 7 punti percentuali. E l’ascolto medio? Meno 3 milioni di telespettatori. Il tutto rispetto all’anno scorso, universalmente riconosciuto come uno dei Festival più interessanti e significativi degli ultimi dieci anni. Un mezzo disastro, a tal punto che fra i dirigenti Rai c’era qualcuno che mormorava mugugnando che «peggio di così è difficile fare, non possiamo far altro che migliorare». Detto, fatto. Buona la quarta, quindi. Merito anche della decisione di lasciar spazio ai Giovani ben prima del previsto. Vuoi per la fame di successo, vuoi per lo spirito di innovazione, son state le performance più significative e genuine. Per la cronaca, tra le Nuove proposte ha vinto Rocco Hunt, mentre Zibba ha vinto il premio Mia Martini. Quello per il miglior arrangiamento, invece, è andato a Renzo Rubino.
Nel frattempo si possono già tirare le prime somme del Sanremo 2014, in pratica l’ultimo di Fazio. Dopo le incursioni di Beppe Grillo, dopo i due disoccupati dell’area campana, dopo lo scandalo che ha coinvolto la canzone già suonata prima del Festival da parte di Riccardo Sinigallia, dopo le polemiche sulle battute della Littizzetto e sui maxi compensi a Fazio, cosa rimane? In genere dovrebbero restare le canzoni, le musiche, le interpretazioni. Ma è davvero difficile salvare l’intera kermesse. Si possono salvare delle singole performance, come quelle di The Niro (la prima sera, tra l’altro, sotto l’effetto della febbre) o quella di Raphael Gualazzi. Si può salvare l’esperienza di Cristiano De André (toccante la sua intepretazione di “Verranno a chiederti del nostro amore” di suo padre, con tutta la sala stampa in totale silenzio) o il fascino di Renzo Rubino. Si può salvare la voce di Francesco Renga (ma non la canzone, nonostante sia stata molto apprezzata dal televoto) o l’eleganza di Antonella Ruggiero. Ma poi? Quando si tornerà ad avere canzoni capaci di resistere nei decenni del livello di “Come saprei” o “Luce (Tramonti a nord est)”? Sono passati pochi anni, ma sembrano secoli. Peccato.
Il rituale del Festival, sempre più lento a seguire le mode, deve rinnovarsi. È questa la richiesta, nemmeno troppo implicita, che sta invocando il pubblico. Lo si legge sui social network, lo si percepisce nelle strade di Sanremo. Se si pensa che via Matteotti, la via del teatro Ariston, si è riempita più per Beppe Grillo che per i cantanti in gara, è facile capire quanto sia astrusa la mente della produzione Rai. E dire che ci sono stati dei tentativi di vera innovazione, reale sperimentazione. Un esempio? Raphael Gualazzi, The Bloody Beetroots e Tommy Lee che propongono la loro versione “Nel blu dipinto di blu”. Sulla carta, una scommessa senza fortuna. Sul palco, una delle migliori canzoni presentata durante la quarta serata.
Il momento più bello? Gino Paoli. Immenso, charmant, onirico. Il cantautore genovese ha dimostrato di essere come il migliore degli Château Latour: migliora con l’età. E se ci si sofferma a pensare che, attualmente, non c’è nessuno che possa essere paragonabile a Paoli, un velo di tristezza solca i volti dei discografici. Se Standard & Poor’s avesse guardato la performance di Gino Paoli, ci sarebbe stato un upgrade del rating italiano. In una sola frase, il vero spread dell’Italia musicale è tra “Il cielo in una stanza” e le altre canzoni di questo Festival. Il momento più brutto? Forse la performance di Francesco Renga, con Kekko dei Modà, che hanno riproposto “Un giorno credi” di Edoardo Bennato. Che aggiungere? La voce di Renga e la presenza scenica di Kekko sono state annichilite da un duetto che sembrava più costruito che mai. Il potere dei discografici colpisce ancora. Purtroppo.