Gira e rigira, la patrimoniale è sempre nell’aria. Che si tratti di prelievo forzoso dai conti correnti, o che si tratti di incremento della tassazione sulle rendite finanziarie, il discorso non cambia. È dal 2011 che l’Italia convive con questo spauracchio. E mai come in questi giorni, i primi del governo di Matteo Renzi, si discute sulla convenienza di questa via. Ma a dispetto dei benefici nel breve termine, peraltro pochi, i danni nel lungo periodo possono essere difficili da digerire, tanto per gli investitori stranieri quanto per quelli domestici.
Non è la prima volta che spunta l’idea di una imposta sul patrimonio. Nei giorni neri dello spread, fra il giugno 2011 e il giugno successivo, furono diverse le voci autorevoli che spingevano per questo genere di azione. Da Alessandro Profumo a Pietro Modiano, passando per centri di ricerca e banche d’investimento, erano quasi tutti d’accordo: per abbattere il debito pubblico, che ora è sempre oltre i 2.000 miliardi di euro, occorre che tutti gli italiani diano un contributo. C’è chi parlava di una patrimoniale da 400 miliardi di euro, chi da 1.000 miliardi. C’è chi invocava una sorta di autarchia sui bond governativi. E c’era chi ipotizzava di tassare ancora di più le rendite finanziarie. Uno di questi era Davide Serra, fondatore del fondo Algebris, tra i principali sostenitori di Renzi. A ritmo periodico, circa ogni 6 mesi se si osserva la cronistoria della crisi italiana, lo spettro della patrimoniale ritorna. Mascherata da imposta sugli immobili, o sul capital gain, il risultato finale è sempre quello.
La questione è controversa. La tassazione delle rendite finanziarie già esiste. La detenzione di titoli di Stato in portafoglio già oggi è assoggettata a imposte, con un’aliquota del 12,5 per cento. È un eventuale aumento, o in termini politichesi rimodulazione, a spaventare. Si parla di portarla al 20%, in linea con le tasse sul capital gain per gli altri strumenti d’investimento. Se è vero che la media europea è del 25%, è altrettanto vero che in questo momento gli operatori finanziari, così come la clientela retail, non si attendono un’azione del genere. E non sono pochi i piccoli risparmiatori italiani che hanno in portafoglio bond governativi. Nello specifico, secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, a novembre la clientela retail deteneva 183 miliardi di euro, su un circolante di circa 1.700 miliardi. Non poco. Difficile non chiamarla patrimoniale, nel caso dalle parole si passasse ai fatti.
Un aumento delle imposte sui Bot, anche solo sulla clientela retail, può essere un’arma a doppio taglio. La frammentazione finanziaria nell’eurozona, fra cuore e periferia, è ancora elevata, nonostante qualche miglioramento. E il fenomeno dominante, o almeno quello più evidente, è che nei Paesi della periferia, tra cui troviamo anche l’Italia, i detentori dei titoli di Stato sono in prevalenza domestici. Secondo uno degli ultimi rapporti sul Paese a cura della banca nipponica Nomura, la percentuale di bond italiani circolanti in mano a investitori domestici è del 55%. La presenza degli esteri è invece del 36 per cento. La restante quota è ancora in mano alle singole banche centrali, come la Banca centrale europea (Bce).
L’incremento della tassazione su questi prodotti andrebbe quindi a colpire in prevalenza gli italiani. E getterebbe l’Italia sotto una cattiva luce verso gli investitori esteri. Il contesto, fra l’altro, non è positivo. I rendimenti dei bond italiani sono ai minimi dall’inizio della crisi. A fronte di una remunerazione di tal caratura e tenendo conto della fragilità dei governi italiani (e gli investitori sperano che Matteo Renzi inverta la rotta), cosa dovrebbe fare un un grande fondo d’investimento straniero alla luce di un aumento delle imposte sui bond governativi italiani? Razionalmente potrebbero scegliere di ridurre la quota di Btp e Bot in portafoglio, per evitare o mitigare il rischio di ulteriori azioni analoghe. O, in alternativa, chiedere dei rendimenti più elevati sulle nuove emissioni, in modo da ammortizzare il balzello. E in quest’ultimo caso, a farne le spese sarebbe l’Italia, che si ritroverebbe a pagare di più sul fronte degli interessi passivi sul debito, che vedrebbe vanificato il potenziale effetto benefico di tal operazione. Un gioco a somma zero, quindi, molto pericoloso. Specie a fronte dei circa 450 miliardi di euro che ogni anno vengono rollati dal Tesoro.
Inoltre, in uno scenario di deflazione, la mossa in questione potrebbe avere esternalità negative sui consumi. Ogni qualvolta che si palesa la possibilità di una nuova imposta, è normale che ci sia un effetto cautelativo sia sul risparmio sia sui consumi. Si tenta di risparmiare di più, si consuma di meno, alimentando il circolo vizioso della deflazione. Una spirale difficile da frenare anche per la Bce, il cui meccanismo di trasmissione della politica monetaria non è ancora stato ripristinato. Non va nemmeno dimenticata l’eventuale calo della fiducia. Dopo aver spinto e pubblicizzato la nascita dei Btp Italia, nella mente del piccolo risparmiatore ci sarebbe solo un sentimento: quello del tradimento, dell’ennesima beffa. Anche nel caso i non siano toccati i Btp, ma solo i Bot, complice la scarsa educazione finanziaria dell’investitore medio del Paese.
Due sono le domande da porsi. Quanto si può guadagnare da un aumento delle imposte sul capital gain sui Bot? Secondo le prime stime, circa un miliardo di euro. Troppo poco perché sia una misura capace di incidere sull’abbattimento del debito pubblico. E ancora: dati i pochi introiti previsti, cosa accompagnare a questa soluzione in modo che sia significativa sul fardello da 2.000 miliardi di euro che l’Italia si porta dietro ogni volta che emette un bond? Dato il precedente che si creerebbe, difficile non pensare a una patrimoniale in senso stretto, una tantum. Una mossa suicida.
Infine, come potrebbe prenderla l’Europa? Nella lunga corsa che porta alle elezioni europee, uno dei leit motiv è stato il cambio di registro su chi deve pagare per la crisi. In campo bancario si è passati dai bailout, i salvataggi con soldi pubblici, ai bail-in, i salvataggi interni. In altre parole, si vuole evitare che siano i contribuenti a pagare per le malversazioni finanziarie di terzi, che siano banche o che siano governi. In quest’ottica, è facile prevedere come potrebbe essere accolta da Bruxelles un incremento delle aliquote sulle rendite finanziarie. Sarebbe vista, fanno notare fonti diplomatiche, come l’ennesima occasione persa per l’Italia. Invece di avanzare con riforme strutturali e razionalizzazione della spesa pubblica, specie quella improduttiva, Roma darebbe un segnale di demagogia, faciloneria e convenienza politica, dato che proprio un aumento delle imposte sul capital gain è da sempre uno dei temi più a cuore del centrosinistra. Sarebbe quindi questo il “cambia verso” voluto da Renzi?