Sarà anche finita la recessione, ma la strada per il ritorno alla normalità è ancora lunga. Specie per l’Italia. La Commissione europea ha presentato le ultime previsioni economiche d’inverno, sancendo ufficialmente la fine della più severa recessione dall’introduzione dell’euro. La situazione rimane fragile, complice un elevato grado di frammentazione finanziaria e un prolungato scenario di bassa inflazione che durerà fino al 2015. I Paesi più vulnerabili rimangono quelli periferici. Fra essi, un’Italia che sta tornando quella prima del crac Lehman Brothers. Alto debito, bassa crescita, immobilismo economico. Non c’è da gioirne.
Poteva andare peggio. La luce in fondo al tunnel, lo si è chiarito solo da un paio di mesi, non era quella di un treno, pronto a sbattere contro l’intera eurozona. No, si tratta di una tiepida ripresa economica, spinta in prevalenza dalla domanda estera, a cui fanno il paio i primi frutti del significativo consolidamento fiscale iniziato nel corso del 2011. Certo, l’ottimismo di Olli Rehn, commissario Ue agli Affari economici e monetari, forse è eccessivo quando dice che «il peggio è alle spalle», specie perché l’Asset quality review (Aqr) della Banca centrale europea (Bce) e i suoi risultati rappresentano una mina vagante per la stabilità finanziaria dell’area euro nel breve e medio periodo. Però qualcosa è migliorato. La ripresa del commercio globale è il segnale, spiega la Commissione Ue, che si può ben sperare nel prossimo futuro. La crescita delle importazioni globali sarà del 5% nell’anno in corso e del 6% nel prossimo. E saranno soprattutto Paesi emergenti e sub-emergenti a trainare l’espansione economica nella zona euro, con esportazioni previste a più 1,8% per il 2014 e più 2,5% per il prossimo anno. Allo stesso tempo, tuttavia, la Direzione generale finanza della Commissione Ue guidata da Marco Buti ricorda che c’è un sussulto anche della domanda interna dell’euro area. Domanda spinta però dalla Germania e dai Paesi core, non quelli periferici come l’Italia, nella quale le difficoltà sono ancora molte.
Sono due i punti fermi dopo la presentazione delle ultime previsioni della Commissione Ue. Il primo, esplicito, è che la crisi dell’eurozona si sta stabilizzando. È palese che un ruolo fondamentale lo abbia giocato la Bce quando ha lanciato le Outright monetary transaction (Omt), il programma di acquisto sotto stretta condizionalità di bond governativi a breve termine sul mercato obbligazionario secondario. Senza di questa mossa, che ha mitigato il rischio di convertibilità, lo stress finanziario sarebbe ancora tra noi, vanificando gli sforzi (pochi, invero) politici per traghettare l’eurozona fuori dalle acque tempestose. Il secondo punto fermo, implicito, è che il peso dell’Europa nella crescita globale sta aumentando, ma non abbastanza. La ripresa mondiale rimane ancora dipendente dagli altri Paesi sviluppati, dagli Emergenti e da quelli in via di sviluppo. È per questo che il maggiore driver per rafforzare la ripresa che si è affacciata sull’eurozona può essere rappresentato dalle riforme strutturali dei Paesi membri. Mercato del lavoro, mercato dei servizi, mercato dei capitali, nuova struttura dell’eurozona: tutti punti che dovranno essere discussi nei prossimi mesi e anni per garantire una sostenibilità di lungo periodo all’area euro.
E poi c’è l’Italia. Il Pil tornerà a crescere nel 2014, più 0,6%, dopo le due contrazioni del 2012 e del 2013, rispettivamente meno 2,5% e meno 1,9 per cento. Solo nel prossimo anno la crescita economica del Paese tornerà sopra il punto percentuale, fissandosi all’1,2 per cento. Poco, specie contando la media dell’eurozona, che prevede un Pil in aumento dell’1,2% nell’anno in corso e dell’1,8% nel 2015. La migliore notizia, per quanto riguarda l’Italia, arriva sul fronte del rapporto fra deficit e Pil, che nel 2014 sarà a quota 2,6%, assai meno del vincolo del 3% fissato dal Fiscal compact. Ancora più basso sarà il deficit nel 2015, circa il 2,2 per cento. Il più grande fardello dell’Italia, il debito pubblico, resterà oltre quota 130% del Pil ancora per molto. Nel 2014 sarà al 133,7% del Pil, mentre nel 2015 ci sarà la prima contrazione, al 132,4 per cento. Simile la dinamica anche per l’indebitamento dell’intera area euro, che passerà dal 95,5% del Pil del 2013 al 95,9% dell’anno in corso, per poi calare fino al 95,4% nel 2015.
Le cattive notizie, per l’Italia, arrivano da tre diversi fronti: consumi privati, aspettative d’inflazione e tasso di disoccupazione. Sul primo fronte sono lontani i tempi in cui crescevano di oltre un punto percentuale su base annua. Dopo una flessione di 2,5 punti nel 2013, cresceranno dello 0,1% nel 2014 e dello 0,9% nel 2015, a meno che non ci siano sorprese sul fronte delle imposte. Ci sono poi le aspettative sull’indice armonizzato dei prezzi al consumo, che aumenterà dello 0,9% su base annua nel 2014 e dell’1,3% nel 2015. Un livello al di sotto dell’obiettivo della Bce, intorno al 2 per cento. Infine, il terzo versante, la disoccupazione. Il tasso resterà sopra il 12% almeno fino al 2015. Ecco perché la Commissione europea sta spingendo per una rapida implementazione della riforma del mercato del lavoro da parte dell’Italia. Senza di essa, per Roma potrebbe essere difficile creare un circolo virtuoso capace di garantirle un’uscita dalla palude.
Le due notizie positive arrivano invece, oltre che dal deficit, dal tasso di risparmio delle famiglie italiane e dalle esportazioni. Sul primo punto, si tornerà a crescere, fino a toccare il 13,2% del reddito disponibile. Un livello inferiore a quello medio registrato tra il 1994 e il 2009, pari al 17,3% del reddito, ma comunque più elevato rispetto all’11,6% del 2012, il minimo dall’introduzione dell’euro. Sul secondo punto, invece, le esportazioni torneranno sopra quota 3% per la prima volta dal 2011. Nello specifico, più 3,3% nel 2014 e più 4,9% nel 2015. Si tratta della prova che la componente maggiore della crescita italiana nei prossimi due anni sarà derivante dall’export. Un settore, quest’ultimo, che è fortemente dipendente dalla Germania, Francia e Svizzera, i nostri primi tre partner commerciali secondo un paper pubblicato dal think-tank Bruegel (sotto il grafico). Un rafforzamento della domanda tedesca, nonostante il sentimento contro Berlino sia sempre più elevato, gioverebbe molto a Roma. Il bene della Germania, per essere banali, è il bene dell’Italia. Inoltre, la speranza è che le tensioni intorno ai Paesi emergenti non si abbattano sull’economia globale. Un calo della domanda aggregata potrebbe infatti impattare sulla ripresa dell’intera euro area, con una particolare virulenza su Paesi periferici, i più vulnerabili agli shock esogeni.
Lo scenario chiaroscurale sull’Italia rischia di avere un effetto particolare. Considerato che gli esponenti del neonato governo di Matteo Renzi hanno più volte rimarcato l’urgenza di andare oltre il vincolo del 3% del deficit per alimentare gli investimenti sull’Italia, ora non ci sono più scuse. Lo 0,4% di margine prima di arrivare al limite si può tradurre in poco più di 6,4 miliardi in investimenti. Una cifra che non è proprio irrisoria, specie in questo periodo, ma che in teoria non può essere utilizzata vista la regola sul pareggio strutturale. il rischio che corre il Paese è però quello di lasciarsi prendere dall’entusiasmo e sforare il tetto, o perlomeno arrivare vicini a farlo. Compiere una mossa del genere, senza portare a compimento le riforme strutturali promesse, potrebbe far scivolare il governo Renzi nelle sabbie mobili. Dalla Commissione europea ricordano che gli occhi continuano a essere puntati sull’Italia. Riforme, consolidamento fiscale, stabilità politica: sono queste le tre richieste. Toccherà a Matteo Renzi renderle realtà.
Tante belle parole, ma poca concretezza. È questo anche il pensiero della maggioranza delle banche d’investimento che stanno in questi giorni guardando con curiosità le prime azioni del governo Renzi. L’attività economica si sta riprendendo, ma le riforme latitano. E Rehn ha già lanciato un monito all’Italia. Un aggiustamento strutturale più significativo dovrà essere adottato per iniziare una riduzione del debito pubblico, secondo il commissario Ue. Il percorso di Renzi inizia in salita.