Politiche per il lavoro: tre miliardi da non sprecare

Da Giovannini a Poletti

Matteo Renzi, neopremier italiano, ha posto l’obiettivo lavoro subito dopo quello della riforma della legge elettorale, del Senato e del Titolo V della Costituzione. Nella sua tabella di marce forzate, il lavoro sarà al centro dell’agenda del governo a marzo.

La creazione di nuovi posti di lavoro sarà l’obiettivo prioritario e la sfida più difficile che il nuovo esecutivo ha di fronte a sé. Renzi lo sa, poiché fiuta gli umori della gente: il lavoro è essenziale per ridare fiducia ed ottimismo al paese. Non è un caso che, la sua spinta riformatrice come segretario del Pd si sia concentrata finora proprio sul Jobs Act.

È perciò importante chiedersi: Come cambierà la strategia del nuovo governo sulle politiche del lavoro? 

Può essere di buon auspicio per il nuovo ministro del lavoro ricordare alcune linee guida della strategia che il governo precedente aveva dichiarato di voler perseguire in attuazione dello Youth Guarantee, il programma di intervento per favorire l’occupazione giovanile proposto dall’Unione Europea. La strategia è orientata al raggiungimento di due obiettivi prioritari:

– aumentare le opportunità di lavoro di chi è disoccupato o inattivo, in specie i più giovani

– accrescere la “ri-occupabilità” di chi fruisce di ammortizzatori sociali attraverso politiche attive più efficaci

A tal fine, loYouth Guarantee prevede l’obbligo, tipico delle socialdemocrazie scandinave e dell’Europa continentale, di offrire una occasione di occupazione, di istruzione oppure di formazione professionale a chi è disoccupato da un certo periodo di tempo, diciamo quattro mesi.

Si tratta di un impegno di ardua realizzazione in Italia, per due motivi principali. Il primo motivo è che per fare ciò occorre un dialogo sociale costante fra tutti gli attori del mercato del lavoro: istituti di formazione scolastica e universitaria, imprese, rappresentanze dei sindacati, istituzioni di governo locale e centri per l’impiego. Il modello sociale europeo è il modello per questa integrazione mentre in Italia questi soggetti vivono ancora in mondi paralleli: non dialogano fra loro se non in modo occasionale e spesso per contrastarsi gli uni con gli altri.

Una prerogativa del modello sociale europeo nel mercato del lavoro e anche del sistema dell’apprendistato, come ogni tedesco sa, è che ci sia una forte integrazione fra scuola e impresa. Una piena realizzazione dello Youth Guarantee richiederebbe innanzitutto uno sforzo in questa direzione. Una parte dei fondi dati in dotazione dall’Ue potrebbe essere anche finalizzata a obbligare scuole e università a fornire stage pagati in azienda agli studenti di istituti tecnici e professionali, nonché agli studenti universitari, il cui immediato sbocco dovrebbe essere l’entrata nel mondo del lavoro.

Il secondo motivo di difficoltà è rappresentato dai centri per l’impiego, che, come spesso sottolineato, in molte regioni del Paese, soprattutto quelle meridionali, sono in uno stato comatoso da anni. Autorevoli osservatori sostengono che sia necessaria una loro chiusura per evitare ulteriori perdite di denaro. Noi non siamo d’accordo con questa visione, ma crediamo che sia obbligatorio, per il successo dello Youth guarantee, che si metta mano in modo energico al sistema dei centri per l’impiego per riattivarli.

Nella relazione di attuazione relativa al biennio 2014-15, l’ex Ministro del lavoro, Enrico Giovannini, ha indicato come condizione necessaria per la rinascita dei centri per l’impiego sette obiettivi intermedi:

1. definire i servizi minimi da erogare e quelli opzionali, rendendo operativo il sistema continuo di monitoraggio delle attività

Questo è un punto cardine della riforma dei servizi pubblici per l’impiego già da quando il vecchio Collocamento è stato convertito in Centri per l’impiego (Cpi). È stato ripreso anche nei cosiddetti Livelli Essenziali di Prestazione (Lep) della Riforma Fornero del 2012. Al momento, si assiste ad una “balcanizzazione” dei Lep connessa alle diverse risorse messe a disposizione in ciascuna regione. Calabria e Trentino possono avere gli stessi Lep, ma è opportuno accertare il loro raggiungimento attraverso un adeguato monitoraggio, il più obiettivo possibile. Per essere più chiari, le auto-dichiarazioni dei responsabili dei Cpi non bastano. Vanno definiti Lep oggettivi e verificabili e il monitoraggio va affidato ad una autorità indipendente.

2. valutare l’appropriatezza dell’attuale distribuzione territoriale dei Cpi e se necessario operare una riallocazione

Assolutamente condivisibile. Il monitoraggio del Ministero del Lavoro nel 2013 mostra una distribuzione territoriale del personale assolutamente disomogenea. Come già sottolineato, la Regione Sicilia è un caso estremo. L’efficienza dei Cpi può aumentare molto con una riorganizzazione interna del personale. Alla definizione dei livelli essenziali di prestazione si può far corrispondere una definizione di livelli organizzativi minimi uguali in tutti i Cpi. Le medie nazionali possono essere punti di riferimento importanti per la riorganizzazione degli uffici meno efficienti.

3. realizzare appieno la banca dati delle politiche attive e passive

Il terzo punto offrirà sicuramente spunti interessanti per gli operatori territoriali. Sarebbe opportuno incrociare i dati anche con le comunicazioni obbligatorie, le dichiarazioni di disponibilità del lavoro e i dati del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca scientifica (Miur) per il censimento occupazionale dei giovani studenti. I dati ottenuti possono servire anche per una valutazione dell’operato dei diversi Cpi e delle scuole di formazione. Un paese è moderno se riesce a utilizzare la informazione statistica a disposizione per orientare il proprio intervento.

4. a partire dal portale Cliclavoro, sviluppare una piattaforma web nazionale per facilitare l’incontro domanda-offerta di lavoro

Il portale Cliclavoro[i] costa milioni di euro e si spera che già realizzi le attività indicate. Ma è importante farlo usare di più dalle imprese. Se non si opera in fretta e bene, una piattaforma nazionale di incontro domanda-offerta rischia di risultare inutile e dispendiosa, visto che sul mercato esistono già strumenti analoghi e molto diffusi tra i disoccupati (come Infojobs).

5. connettere la piattaforma nazionale con la rete dei servizi di placement di università e scuole

Questo è un punto chiave che potrebbe aiutare a mettere in rete anche le istituzioni scolastiche e universitarie, pezzo importante di un meccanismo efficiente della transizione scuola-lavoro. Sarebbe opportuno integrare la piattaforma anche con Eures, il portale della Commissione europea volto a favorire la mobilità occupazionale in Europa, soprattutto per i neodiplomati e neolaureati.

6. definire un piano di formazione degli operatori e favorire, attraverso i social network, la creazione di una comunità degli addetti ai lavori

Il sesto punto si ricollega in specie i primi due. È importante che gli operatori facciano propri i contenuti di quello che nel Regno Unito si chiama New Public Management, vale a dire la sburocratizzazione dei servizi, la gestione per obiettivi e l’utilizzo sistematico del monitoraggio e della valutazione d’impatto dei servizi svolti. Risolvendo importanti fallimenti del mercato e avviando attività di tipo pro-attivo, i Cpi potrebbero generare abbastanza valore per autofinanziarsi. A tal fine, occorrono più risorse, più uomini e anche la informatizzazione completa delle funzioni più burocratiche.

7. far sì che tutte le regioni legiferino in materia di autorizzazione ai privati

Il sistema italiano di “accreditamento” dei privati è variopinto; alcune regioni non hanno neppure una legge propria di riferimento e altre hanno introdotto innovazioni che, se opportunamente migliorate, secondo le linee già indicate su lavoce.info, sono esportabili a livello europeo. Tra queste, la Lombardia con la sua Dote Unica del Lavoro: un sistema di “quasi mercato” con un proporzionalità tra servizi offerti e difficoltà di collocamento e rating degli operatori[ii].

Un modo più diretto di raggiungere l’obiettivo, sarebbe di formulare una legge nazionale che definisca il rapporto con i fornitori profit/non profit in modo più dettagliato di quanto non sia già stato fatto dalle riforme Biagi e Fornero, prevedendo la possibilità che leggi regionali subentrino su alcune materie (dato il noto conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni in materia di politiche attive del lavoro).

Per la prima volta da anni i soldi non mancano. Alle politiche attive del lavoro e ai servizi pubblici per l’impiego saranno destinati in due anni più di 3 miliardi di euro (dai fondi nazionali e comunitari).

Le proposte avanzate sono interessanti e condivisibili. Come auspicato dall’Unione Europea, lo Youth Guarantee potrebbe ridurre la componente frizionale e il mismatch della disoccupazione. L’impatto complessivo immediato del programma sarebbe limitato, ma consentirà alle imprese di tradurre ogni nuova opportunità di ripresa in termini occupazionali. C’è però un piccolo problema, che non sfuggirà agli addetti ai lavori: molti dei punti sono stati già enunciati in passato fin dai tempi della riforma Treu. Ciò evidenzia il ritardo degli interventi nel settore e dà un’idea delle barriere che Renzi deve superare.

Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su lavoce.info

[i] Per maggiori informazioni si veda: Come intercettare la domanda di lavoro?, lavoroeimpresa.com

[ii] Ad esempio, nel programma Dote ricollocazione tra i più efficienti si segnalano Gi-Group, Umana, Adecco, Workopp, Obiettivo Lavoro, Afol Sud-Milano e Afol Monza-Brianza. Da Bollettino Ufficiale n.42_Regione Lombardia.

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