Il retroscena è in scena. In quei due secondi in cui le mani di Enrico Letta e Matteo Renzi scivolano l’una sull’altra senza stringersi, si scorgono improvvisamente l’imbarazzo e il risentimento, s’avverte il sapore amaro della vittoria e l’acido della sconfitta, s’intuisce quanto aveva ragione Rino Formica, che chiamava la politica “sangue e merda”. E dunque non può esserci distacco, ed è inestricabile il groviglio tra i sentimenti, le aspirazioni e il potere. Tutto ciò che si poteva immaginare dei rapporti tra questi due uomini così diversi, eppure così simili, il traditore e il tradito, il vincitore e lo sconfitto, Matteo ed Enrico, si è adesso rivelato con un nitore persino crudele. E davvero mai la politica potrà corrispondere alla massima di Vito Corleone, che nel Padrino esercitava la sua saggezza criminale con queste parole: “E’ business, non sono affari personali”. Insomma io ti sparo, ma tu non prendertela troppo.
Dunque nelle immagini Letta stringe le labbra e non fa nulla per sembrare impassibile, indossa un’aria di dignità e di freddezza, la piega amara delle labbra sottili e lo sguardo sfuggente che si frappone come uno schermo fra lui e il suo baldanzoso successore. Renzi e Alfano, Lupi e Lorenzin, il segretario del Pd e i ministri riconfermati, per Letta adesso sono come i pescecani: gli squali vincono, come vincono le masse, le bestie, gli inferiori in intelligenza, ma superiori in numero e in forza. E così, sul serio, in quella stretta di mano sfuggente c’è molto di più di qualsiasi articolo di giornale, è più di un saggio di sociologia. Renzi appare imbarazzato, quasi fanciullesco mentre posa gli occhi addosso a Letta, per una frazione di secondo, prima che l’altro gli sfili la mano dalla mano. E Renzi ha l’espressione e le movenze di un bambino che abbia compiuto una monelleria, non riesce a guardare “l’amico Enrico” negli occhi. Può capitare di vedere una banda di ragazzini scalmanati che prendono a sassate un gatto rognoso. E quando sono riusciti ad abbatterlo, a ferirlo senza ucciderlo, preferiscono tenersi a distanza, si vergognano di ciò che hanno fatto. Dev’essere così anche per Renzi, e chissà quanto avrebbe dato oggi il giovane presidente del Consiglio per non incontrarlo affatto Letta – “il mio regno per un cavallo”.
Era forse scritto nel loro destino che il successo del primo dovesse corrispondere alla sconfitta del secondo. E a lungo, Letta e Renzi, Renzi e Letta, sono sembrati i Duellanti di Conrad, figli della stessa storia, quel vago sapore di oratorio che in Italia è un modo speciale di essere di sinistra, tirare calci al pallone, fare gli scout e andare a messa. Ma tra i Duellanti di Conrad c’era una solidarietà di spirito, un legame dell’anima che Renzi e Letta evidentemente non hanno mai condiviso. “E’ straordinario come quell’uomo, in un modo o nell’altro, sia riuscito a legarsi ai miei sentimenti più profondi”, fa dire Conrad al vincitore D’Hubert nelle pagine conclusive del suo racconto. E mai D’Hubert avrebbe colpito alle spalle Ferraud per prenderne il posto, trovandoselo poi di fronte, agonizzante, com’è accaduto oggi a Renzi. Le confessioni degli assassini sono sempre piene d’una doppia freddezza, come sanno i magistrati e i poliziotti, e come raccontava Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone: ci vuole il pelo sullo stomaco per sparare, ma ci vuole una pelliccia per convivere poi con il rimorso. E adesso Renzi dovrà abituarsi a vedere Letta con quella stessa faccia glaciale e sfigurata di oggi. Perché lo sconfitto e accoltellato Letta questa faccia se la porterà in giro per il Parlamento, in Transatlantico e lungo i corridoi del Pd, diventando una sorta di rimprovero vivente per Renzi. Il fantasma di Banquo, o il fantasma di Enrico.