L’introduzione della moneta unica nel lontano 1999 è stata accompagnata da lunghe e animate polemiche circa le conseguenze che tale decisione avrebbe avuto sulla sovranità degli stati aderenti. Ben lontane dall’essere sopite, tali argomentazioni hanno riguadagnato importanza nel dibattito europeo con lo scoppio della crisi. Dal punto di vista economico la teoria dell’Area Valutaria Ottimale (Optimal Currency Area) di Mundell e i lavori che sono seguiti hanno sollevato dubbi circa la fattibilità e la sostenibilità di un’unione monetaria per i paesi europei, soprattutto a causa della scarsa mobilità di fattori come lavoro e capitale e delle differenze nei tassi di inflazione.
Nonostante i pareri discordanti, considerazioni politiche come la volontà di spezzare il monopolio del dollaro come moneta di scambio internazionale e il desiderio di creare un simbolo di identità europea prevalsero: i leader di 11 paesi dell’allora Comunità Europea decisero di creare l’Euro. La convergenza tra le diverse economie e la sincronizzazione dei cicli economici, due condizioni fondamentali per il corretto funzionamento di un’unione monetaria, si credeva, sarebbero state raggiunte in modo naturale (in economia si usa il termine endogeno) dopo l’adozione della moneta unica.
Al fine di evitare fenomeni di free-riding, tali per cui certi paesi potrebbero beneficiare dell’essere parte dell’unione monetaria senza pagarne i costi (i famosi “compiti a casa”), la Germania strappò un accordo per l’adozione di uno strumento di coordinamento chiamato Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Il PSC pone dei limiti alle decisioni di politica fiscale dei governi nazionali e stabilisce dei target numerici piuttosto rigidi per due voci di bilancio: il deficit (massimo 3% del Pil, escludendo il pagamento degli interessi) e il debito (massimo 60% del Pil). La rigidità delle regole e le sanzioni si pensava avrebbero promosso politiche fiscali sostenibili anche nei paesi tradizionalmente meno disciplinati che, per inciso, erano stati ammessi nell’unione monetaria nonostante violassero una o entrambe le condizioni del Patto.
Pur con i suoi limiti, l’architettura della governance economica e monetaria europea ha retto per oltre dieci anni finché non è stata messa a dura prova da una serie di eventi: l’arrivo della crisi, l’esplosione dei debiti sovrani (parzialmente legata alla crisi) e lo scandalo dei conti truccati in Grecia. Quest’ultimo rappresenta un caso eclatante ma non isolato nel panorama europeo, tant’è che non pochi paper accademici già nei primi anni 2000 denunciavano l’uso di pratiche contabili a dir poco “creative” da parte di svariati paesi al fine di rientrare nei limiti imposti dal PSC ed evitare le sanzioni.
Il sistematico ricorso a tali pratiche è per definizione difficile da monitorare tuttavia lo studio della dinamica di una variabile di bilancio chiamata Stock-Flow Adjustment (SFA, o Aggiustamento stock-flussi) può fornire qualche interessante spunto. La SFA è calcolata come differenza tra la variazione nel livello del debito pubblico e somma dei deficit lungo lo stesso arco temporale. Valori positivi di tale variabile segnalano che parte della variazione del debito (es. un aumento) non è spiegato dall’accumulazione dei deficit. Esistono spiegazioni legittime per questo scostamento riconducibili alla diversa natura delle due variabili (il debito è una variabile di stock, il deficit è una variabile di flusso) tale per cui alcune transazioni hanno un impatto differenziato sul deficit e sul debito. Tuttavia, la variabile dovrebbe comportarsi come una variabile casuale, ovvero alternare valori positivi e negativi che in un arco di tempo di 4-5 anni dovrebbero compensarsi. Valori sistematicamente positivi dovrebbero far accendere una spia rossa: “Attenzione! Rischio contabilità creativa”. Infatti, lo SFA essendo una variabile pressoché sconosciuta e non monitorata in modo sistematico è un esempio del celebre tappeto sotto cui si nasconde la polvere. Dare una specifica classificazione contabile a certe transazioni permette di spostare i suoi effetti dal deficit al SFA dando l’impressione di una situazione più rosea di quella reale.
Tale pratica può rappresentare una forte tentazione soprattutto in periodi elettorali dove poter implementare certe spese mantenendo (l’apparenza di) conti in ordine può avere un ritorno elettorale non da poco. Tuttavia la contabilità creativa porta con sé tutta una serie di rischi tra cui l’affidabilità dei dati di bilancio (anche nella prospettiva di vendere i propri titoli agli investitori) e una distorta percezione della situazione fiscale. Entrambe sono condizioni che non aiutano a prendere decisioni di politica fiscale che garantiscano sostenibilità ed equilibrio.
Attraverso l’analisi dei dati sulla dinamica del SFA per i 17 paesi della zona Euro (controllando statisticamente per altri fattori che potrebbero influenzarla) è emerso che esiste un ciclo indotto dal calendario elettorale, tale per cui in tempo di elezioni la variabile tende ad essere più grande che in anni non elettorali. Il caso della Grecia, riportato nel grafico sotto, è particolarmente interessante: la linea rossa mostra l’andamento del SFA mentre le linee tratteggiate verticali segnalano gli anni elettorali. Come confermato dall’analisi statistica esiste una relazione tra le due variabili, quindi è legittimo sospettare che in Grecia sia stato fatto un uso strategico delle pratiche contabili soprattutto a ridosso delle elezioni in modo da ridurre l’impatto di alcune transazioni sul deficit.
Allargando lo sguardo al di là della Grecia, possiamo chiederci se lo stesso fenomeno sia avvenuto negli altri paesi UE. Il grafico sotto riporta il valore del coefficiente della variabile elezione nel modello econometrico e le linee verticali definiscono l’intervallo di confidenza al 95%. Le conclusioni che abbiamo tratto per la Grecia sono ugualmente applicabili al Portogallo, mentre per tutti i paesi a destra della Spagna (ES) non esiste sufficiente certezza statistica per confermare la presenza di un ciclo in SFA. Il che non esclude la possibilità
Anche qualora il fenomeno fosse limitato a questi due paesi, sapendo come è andata a finire, un primo insegnamento che traiamo è che la combinazione di regole fiscali e incentivi elettorali può essere esplosiva, quindi il monitoraggio è un elemento fondamentale di un sistema di governance decentralizzato come quello dell’Eurozona. Ciò non significa che il PSC sia il responsabile di tale andamento o che le regole fiscali siano inutili, al contrario suggerisce che tali strumenti possiedono dei limiti intriseci poiché, per esempio, si basano su definizioni che possono essere abusate. Essere consapevoli di tali limiti è il primo passo per predisporre strumenti atti a compensarli. Un esempio: allargare la portata del sistema di sorveglianza fiscale includendo altre variabili, come il SFA.
Un passo in questa direzione è stato fatto con l’adozione della Macroeconomic Imbalance Procedure che si basa su un insieme di indicatori macroeconomici utili ad identificare in modo tempestivo eventuali rischi. Un’altra misura potrebbe essere quella di incrementare i poteri di controllo di Eurostat sulle agenzie statistiche nazionali per garantire che i dati siano affidabili e le procedure siano correttamente applicate in tutti i paesi. Ciò aiuterebbe a ridurre lo spazio di manovra per pratiche di contabilità creativa e contribuirebbe a compensare gli incentivi “perversi” che derivano dalla formulazione delle regole fiscali come target numerici.