Egitto, case popolari per la propaganda di Al-Sisi

Presidenziali il 26 e 27 maggio

palazzinari degli Emirati Arabi Uniti e i potentissimi generali egiziani hanno stipulato un’alleanza. Che sarà suggellata da tonnellate e tonnellate di cemento armato, quelle necessarie alla realizzazione di un progetto edilizio faraonico (è il caso di dirlo). Risale infatti al 9 marzo l’annuncio della firma di un memorandum of understanding (MoU) del valore di 40 miliardi di dollari. Che prevede la costruzione di un milione di alloggi per persone disagiate su circa 160 mila metri quadrati di terreni ripartiti fra Il Cairo, Alessandria e altre città egiziane.

Afirmare l’accordo sono stati il generale Abdel Fattah Al Sisi, ex ministro della difesa egiziano e ufficialmente candidato alle elezioni Presidenziali del 26 e 27 maggio, e Hassan Ismaik, Ceo di Arabtec, la maggiore impresa edile degli Emirati arabi uniti, con sede a Dubai. L’annuncio del mega-progetto, uno dei più ambiziosi della storia del Medio Oriente, giunge proprio a ridosso della campagna elettorale per le elezioni presidenziali in Egitto, alle quali è probabile (ma non ancora sicuro) che si candidi proprio Al Sisi, l’uomo più potente del Paese.

I dettagli dell’operazione non sono ancora stati svelati, ma quello che è stato reso noto è già interessante. I terreni su cui costruire sono stati promessi ad Arabtec dall’esercito egiziano. E secondo quanto riportato dalla Reuters, a margine della conferenza stampa sull’accordo, Ismaik avrebbe assicurato che l’esercito intende concederli a costo zero. Come ciò sia possibile è presto detto, e lo spiega a Linkiesta Karim El Assir, analista politico del Signet Institute del Cairo: «tecnicamente si tratta di terreni pubblici, dunque gestiti dallo Stato. In pratica però, l’esercito ha diritto di veto sulla destinazione d’uso e sugli eventuali acquirenti».

Un potere decisionale esercitato con non poca astuzia. «Un progetto simile rafforza indubbiamente l’immagine di Al Sisi come paladino dei più poveri, e dunque la sua popolarità. – dichiara a Linkiesta Lurdes Vidal, direttrice dell’area Mondo arabo e mediterraneo dell’Istituto europeo del Mediterraneo (IEMed) di Barcellona – E favorisce pure gli interessi dei militari, e la loro legittimità come attori non solo economici ma anche politici».

Naturalmente ci guadagnerà anche Arabtec, perché il gigantesco progetto edilizio sarà pure destinato ai settori disagiati della società egiziana, «ma non è un’opera di carità», sottolinea la Vidal. Anzi, «per l’ingente quantità dei fondi viene definito qualcosa di unico – spiega a Linkiesta Silvia Colombo, ricercatrice presso l’Istituto affari internazionali (Iai) di Roma – che potrebbe trasformare Arabtec nel gigante edile regionale».

Una prospettiva allettante per l’azienda, fondata nel 1975 e in fase di forte espansione. Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso ha triplicato i suoi utili, raggiungendo i 33 milioni di dollari dagli 8 dello stesso periodo nel 2012. Oltre al mega-progetto egiziano, recentemente Arabtec se ne è aggiudicata altri: ad esempio quello per la costruzione di una sede distaccata del museo del Louvre ad Abu Dhabi, o quello per l’ampliamento del principale aeroporto del piccolo emirato. Una gioia per i suoi azionisti, a cominciare da quelli strategici del fondo di investimenti Aabar, controllato dal governo di Abu Dhabi tramite la International Petroleum Investment Company (Ipic).

«Questo progetto sarà probabilmente un volano per molti altri investimenti da parte dei Paesi del Golfo – continua la Colombo – che non hanno certo problemi di disponibilità finanziaria. Anzi, sono alla costante ricerca di nuovi mercati». E in Egitto i petrodollari non arrivano soltanto sotto forma di investimenti, ma anche di cospicui aiuti economici. Dalla caduta del presidente islamista Mohamed Morsi, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e il Kuwait hanno promesso oltre 12 miliardi di dollari per contribuire al rilancio dell’economia egiziana. Rimpiazzando così il Qatar, che invece aveva appoggiato Morsi. Insomma, sembra che le sotto-popolate petromonarchie del Golfo vogliano trasformare l’Egitto in un gigantesco mercato: il loro.

«Sauditi, emiratini e kuwaitiani stanno superando abbondantemente gli aiuti promessi dal Qatar – dichiara la Vidal – aiutando il governo egiziano a migliorare la situazione socioeconomica, che è vitale per assicurare la sua sopravvivenza politica. In fondo, è stato proprio il peggioramento dell’economia a causare le manifestazioni di massa contro Morsi. Quelle che i militari hanno usato per legittimare il golpe contro di lui». Peraltro prima ancora di Morsi è stato proprio l’inossidabile presidente Mubarak a cadere al grido della Rivoluzione egiziana, “pane, libertà, giustizia sociale”.

In un Paese dove il 17% della popolazione patisce la fame, e la disoccupazione è alle stelle, pane e lavoro sono i veri strumenti del consenso popolare. Dunque l’idea di costruire un milione di alloggi a basso costo sembra proprio un colpo da maestro. «Una delle rivendicazioni principali durante le proteste contro Mubarak era proprio quella di un alloggio decente, che una gran parte della popolazione egiziana ancora non ha. – spiega ancora Colombo – Inoltre si dice che il progetto Arabtec produrrà un milione di posti di lavoro». Alloggi a prezzi abbordabili, lavoro e grandi investimenti dall’estero. Sarebbe un risultato eccellente per Al Sisi, capace di assicurargli anni di stabilità.

Ma lo scetticismo non manca. «Questo progetto non risolverà assolutamente il bisogno di alloggi a basso costo – assicura El Kassir – e io dubito anche della sua fattibilità. Quaranta miliardi di dollari è una grande somma per un governo che ha già problemi a importare i beni di prima necessità di cui il Paese ha bisogno. L’annuncio sembra più che altro una manovra per fare bella pubblicità ai militari».

Ancora, «c’è poca chiarezza sui dettagli, e visto che è stato firmato solo un MoU (che non ha la forza di un contratto vincolante) bisogna vedere se il progetto sarà realizzato davvero. Anche perché pare che i terreni in questione siano lontani dai centri urbani, un aspetto che ha già danneggiato progetti simili, anche se più modesti» conclude l’analista. 

Solo il tempo svelerà il destino di questo progetto. Non certo il primo, per grandezza, nella terra delle piramidi. «Durante l’era Mubarak l’élite economica aveva intrapreso grandiosi progetti, ma erano stati molto criticati, perché si trattava di enormi resort di lusso o centri commerciali. – spiega la Vidal –Questo invece è pensato per i poveri. Davvero un bel colpo per Al Sisi».

Che il MoU abbia scopi politici lo si capisce dal fatto che il generale cinquantanovenne abbia firmato l’accordo senza averne in alcun modo le competenze. La materia degli alloggi non è di pertinenza del suo ministero. Sarebbe stato più indicato, al suo posto, il primo ministro Ibrahim Mehleb, ministro per le Politiche abitative nel precedente governo. Ma che il firmatario dell’accordo sia stato Al Sisi non stupisce affatto la Colombo. «Sappiamo bene che questo è un esecutivo di facciata, e che tutto si riduce in realtà alla figura di Al Sisi nel suo ruolo di difensore del popolo, di colui che ha protetto l’Egitto dallo “scempio” degli islamisti, come recita la propaganda».

Ed è proprio l’aura di benevolo condottiero, unita alla forza dell’esercito egiziano (il principale centro di potere nel paese), a permettere ad Al Sisi di firmare accordi così grossi senza alcuna discussione all’interno del governo. «Alcuni esperti e accademici egiziani hanno criticato questa prerogativa dei militari di regalare la terra senza alcuna supervisione da parte degli organi competenti – continua la ricercatrice. A suo parere questo è solo l’ennesimo esempio di opacità nella gestione degli affari pubblici, che «ha subìto un’impennata da quando i militari sono tornati al governo».

Oltre alla mancanza di trasparenza sul piano interno, da Barcellona la Vidal sottolinea la crescente importanza dei petrodollari nell’economia del Paese. «L’Egitto dipende sempre più  dai soldi del Golfo, e questo avrà delle conseguenze. I suoi finanziatori infatti sono nazioni che si oppongono ferocemente all’islamismo dei Fratelli Musulmani, ma che non disdegnano le correnti salafite, quindi più estremiste».

Questa crescente dipendenza economica deve essere letta anche alla luce del terremoto diplomatico che sta scuotendo le petromonarchie del Golfo: a inizio mese Arabia Saudita, Uae e Bahrein, con una scelta senza precedenti, sono arrivati a richiamare i loro ambasciatori dal Qatar, accusando Doha di sostenere movimenti islamisti che potrebbero «minacciare la sicurezza e la stabilità del Consiglio di cooperazione del Golfo», oltre che appoggiare «media ostili» (leggi Al Jazeera).

E se anche l’Egitto, avendo disperato bisogno di investimenti esteri, non ha raffreddato troppo i rapporti con i suoi tradizionali finanziatori americani, sembra che ormai punti soprattutto sul Golfo. Dopo il disimpegno di Washington dalla regione (si pensi solo ai nuovi rapporti tra Stati Uniti e Iran, l’arcinemico dei sauditi), l’Egitto potrebbe persino diventare il nuovo braccio militare delle petromonarchie. Con una differenza importante: mentre nel primo caso era Washington ad avere il coltello dalla parte del manico, come si vide durante la prima guerra del Golfo, ora sarebbero sauditi e compagnia a dettare la linea; l’Egitto ha un esercito, loro hanno i soldi. Tanti soldi.

Proprio ieri, il presidente egiziano ad interim, Adly Mansour, ha dichiarato in un’intervista al quotidiano del Kuwait Al-Rai, che la sicurezza del Golfo è una delle priorità del nuovo Egitto. Aggiungendo che il suo Paese «sta combattendo una guerra contro il terrorismo nell’interesse dell’intera regione».

«Bisognerà aspettare – conclude la Vidal – per vedere se questo mega-progetto edilizio si realizzerà e se si tratterà effettivamente di alloggi per persone disagiate. Ma, soprattutto, per conoscere le conseguenze di queste relazioni pericolose con le potenze finanziarie del Golfo».