I continui cambi di governo non sono una prerogativa solo italiana. Negli ultimi giorni la politica egiziana ha scritto un nuovo, confuso capitolo della turbolenta era post-Mubarak. A poco più di un mese dalle elezioni presidenziali (che dovrebbero tenersi verso metà aprile) il primo ministro Hazem al-Beblawi ha rassegnato le dimissioni e annunciato un rimpasto dell’esecutivo.
La mossa di Beblawi ha sorpreso un po’ tutti, dagli osservatori internazionali ad alcuni membri del governo, presi alla sprovvista dall’improvvisa decisione. Tutti, però, hanno subito guardato ad Al Sisi, l’uomo forte d’Egitto, pensando che le dimissioni del governo fossero un modo per liberarlo dal suo incarico di ministro della Difesa, e permettergli di annunciare la sua candidatura a presidente della più importante nazione del mondo arabo.
Un’ipotesi poi smentita dai fatti: Al Sisi è uno dei ministri che mantengono il loro incarico nel nuovo governo, guidato da Ibrahim Mehleb, ex ministro per le politiche abitative nel precedente esecutivo e figura chiave dell’ormai dissolto Partito Nazionale Democratico (Ndp) di Hosni Mubarak.
Secondo le fonti sentite da Linkiesta sono però altri i motivi dietro l’ennesimo colpo di scena della politica egiziana. «Febbraio è stato un mese di scioperi, – spiega Ahmed Ghoneim, docente di economia alla Cairo University – dovuti soprattutto alla questione irrisolta del salario minimo dei lavoratori del settore pubblico. Per placare gli animi, allora, si è fatto un rimpasto del governo». Senza allargarsi troppo, però. Il ministro degli interni, Mohamed Ibrahim, fortemente criticato per la sua repressione di ogni forma di dissenso, ha mantenuto il posto, ad esempio.
Peraltro gli scioperi sono piuttosto comuni in Egitto. Questa volta però sono stati soprattutto i dipendenti statali a incrociare le braccia: circa 100.000 fra postini, autisti degli autobus, spazzini, medici. «In effetti non è usuale che gli statali scioperino, – dice a Linkiesta Mohamed El Dahshan, economista dello sviluppo e non-resident fellow dell’Atlantic Council, think tank con sede a Washington – ma la loro situazione è molto peggiorata negli ultimi anni. Lo sciopero dei medici, ad esempio, è sintomatico di un malessere più generale: la situazione degli ospedali pubblici è insostenibile, non hanno neanche le garze per i pazienti. Ed è stato interessante, poi, vedere come il governo appoggiato dai militari abbia affrontato lo sciopero dei trasporti. L’esercito ha utilizzato i propri bus (pagati con denaro pubblico, ovviamente) per rimpiazzare i mezzi fermi, facendo così fallire lo sciopero».
La triste verità è che l’economia egiziana è vicina al collasso. «Sopravvive solo grazie agli aiuti dei Paesi del Golfo» sottolinea Ghoneim. Il Fmi prevede per il 2014 una crescita del 2,8%: certo, si tratta di una cifra migliore del misero 1,8% del 2013, ma comunque inferiore al 3,8% della regione nel suo complesso.
«Se si guarda all’andamento della borsa sembra che la situazione sia migliorata: da luglio il principale indice della borsa egiziana è cresciuto. – spiega El Dahshan – Ciò tuttavia non è dovuto a un effettivo miglioramento dello stato dell’economia, quanto alle dichiarazioni di vari industriali e uomini d’affari dell’era Mubarak, che si sono detti soddisfatti della gestione post-Morsi».
La vita quotidiana è durissima per la maggioranza degli egiziani, che sono tutto fuorché ottimisti. «La settimana scorsa varie agenzie tedesche stavano pensando di far rientrare i loro turisti da Sharm El Sheikh a causa della scarsa sicurezza. – dice ancora El Dahshan – Un vero disastro per il settore turistico, già in profonda crisi: la maggior parte dei turisti sul Mar Rosso sono proprio russi e tedeschi».
Se il turismo, che nel 2010 valeva il 13% del Pil, non si riprende, il malcontento nelle strade è destinato a crescere. E i generali sanno bene che l’insoddisfazione popolare per la gestione dell’economia ha contribuito in maniera decisiva alla caduta dell’ex presidente Morsi.
Ed ecco arrivare il rimpasto di governo. Un modo per prendere due piccioni con una fava. Perché, come spiega a Linkiesta Mohamed Elmenshawy, direttore del programma di studi regionali presso il Middle East Institute di Washington, i generali «hanno voluto liberarsi dei pochi esponenti della rivoluzione e dei pochi liberali che erano presenti nel governo. Ora il gabinetto è composto soprattutto da elementi del regime di Hosni Mubarak».
Dopo aver destituito Morsi, infatti, i militari avevano nominato un governo dove erano presenti anche figure che potessero legittimarlo agli occhi dei rivoluzionari (e della comunità internazionale). Oggi invece è sempre più chiara la piega che sta prendendo l’Egitto. Ritorno al potere di esponenti del partito di Mubarak, possibile candidatura di un generale alla presidenza e ruolo sempre più forte dei militari nella vita politica del paese.
«Mentre la gente era distratta dal cambio di governo, – continua Elmenshawy – il presidente ha emesso un decreto importantissimo: d’ora in poi il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf) non sarà più il presidente della Repubblica, ma il ministro della Difesa». Al Sisi, appunto.
Il decreto non farà che rafforzare ulteriormente l’autonomia delle forze armate egiziane, sottraendole una volta per tutte al controllo dell’autorità civile del Paese. Peraltro i generali si trovano ad affrontare un vero e proprio dilemma: tornare a governare alla luce del sole, come ai tempi di Nasser, o continuare a farlo da dietro le quinte. Ecco perché Al Sisi, vero maestro della suspence, non ha ancora sciolto i dubbi sulla sua candidatura.
Eppure le dimissioni di Beblawi e il rimpasto di governo sono anche da leggersi come un escamotage per evitare che il crescente malcontento verso il governo (espressione dei militari, e gli egiziani lo sanno) danneggi l’immagine delle forze armate stesse. Tuttora amatissime dal popolo. Astutamente i generali cercano di ribaltare la situazione, facendo credere di essere pronti a soddisfare le richieste della piazza. Ma in realtà si tratta solo di marketing politico. In Egitto come in Italia, bisogna cambiare tutto per non cambiare niente.