Modelli di giornalismoEli Pariser: dalla denuncia al fatturato con Facebook

Eli Pariser: dalla denuncia al fatturato con Facebook

Eli Pariser è la figura di intellettuale che molti vorrebbero essere, senza potercela fare. Le sue idee sulla relazione tra la libertà individuale e la tecnologia hanno sollevato dibattiti molto intensi, senza però condurre a risultati tangibili negli ambienti politici; l’organizzazione dei dispositivi online attraverso i quali il suo pensiero è stato divulgato (e applicato con Upworthy) è riuscita però a radunare successi economici imprevedibili.

Il motivo per cui vale la pena di occuparsi di lui è il suo ultimo successo, la testata giornalistica Upworthy, che si è concessa un restauro grafico proprio in questi giorni. Il giornale ha debuttato il 26 marzo del 2012, e da allora ha pubblicato solo 225 articoli; nel novembre 2013 gli utenti unici mensili hanno toccato il picco di 88 milioni di unità, il triplo di quello che è capace di fare il New York Times, e 17 milioni di interazioni su Facebook. Un buon test dei risultati che si possono ottenere pubblicando poco ma con la massima cura.

Prima di approdare ad Upworthy Pariser è stato un attivista di orientamento liberale e un saggista di successo. La sua carriera è cominciata molto presto, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, quando aveva solo 21 anni. Insieme a David Pickering vara il sito 9-11peace.org, con l’obiettivo di raccogliere firme intorno ad un manifesto che chiede al governo americano di cercare una soluzione pacifica della crisi. Entro il 18 settembre erano già state raccolte 120 mila firme da 190 nazioni. Quando il 9 ottobre la petizione è stata consegnata all’allora presidente Bush e al segretario generale delle Nazioni Unite, le sottoscrizioni erano cresciute fino a toccare il mezzo milione.

Entro la fine del 2001 Pariser accetta l’offerta di fondere la sua iniziativa con quella di MoveOn.org, e nell’arco di un anno gli utenti iscritti alla piattaforma di petizioni online crescono fino a raggiungere la quota di 1,3 milioni, 900 mila dei quali sono cittadini americani. Nel corso del 2002 la mobilitazione del sito raccoglie 700 mila dollari per la rielezione del senatore Paul Wellstone, sostenitore della causa pacifista contro la risoluzione belligerante in Iraq; in sole due ore la piattaforma raccoglie 200 mila dollari per sostenere la candidatura di Walter Mondale, chiamato a sostituire lo stesso Wellstone deceduto in un incidente aereo.

Né la Casa Bianca, né l’ONU hanno mai risposto alla petizione consegnata da Pariser; nel frattempo gli USA hanno dichiarato guerra sia all’Afghanistan, sia all’Iraq, impegnandosi in un conflitto che ha generato molte più vittime americane di quelle mietute dagli attentati dell’11 settembre. Il dispositivo di Pariser e dei suoi soci però ha messo in evidenza la funzionalità della raccolta fondi organizzata tramite micro-donazioni online: una formula che ha partecipato in modo decisivo alla vittoria elettorale di Obama nella tornata del 2007-2008. Al primo tentativo, nel corso del 2003, l’esperimento di MoveOn contro la rielezione di Bush ha conquistato un ottimo successo di finanziamento, senza però ottenere il risultato finale auspicato.

L’operazione Bush in 30 secondi ha radunato venti milioni di dollari da distribuire al Partito Democratico e ai suoi candidati, senza però riuscire ad evitare il secondo mandato del principale bersaglio del progetto. L’invito di Eli Pariser e Laura Dawn era rivolto a tutti coloro che volessero denunciare i fallimenti della politica del presidente repubblicano in un video di trenta secondi. Il vincitore, proclamato da una giuria di ventuno celebrità (tra cui Moby, Michael Moore, Gus Van Sant e Jessica Lange), avrebbe goduto dell’onore di vedere il suo spot proiettato dalla CBS nell’intervallo del Super Bowl. Alla fine l’emittente ha rifiutato di trasmettere il video, che è stato mandato comunque in onda dalla CNN.

La fama internazionale di Pariser è arrivata nel 2011 con la pubblicazione del best seller The Filter Bubble, che denuncia le conseguenze negative degli algoritmi di personalizzazione elaborati da Google e da Facebook. L’indagine prende le mosse da un fatto autobiografico. Pariser dichiara di essersi accorto che i post degli amici repubblicani tendevano ad apparire con sempre minore frequenza sulla sua bacheca, fino a scomparire del tutto: il sospetto che questo comportamento del software finisca per offrire una rappresentazione distorta del mondo guida l’analisi esposta nel volume. Le ricerche profilate su Google e il filtro che blocca i contenuti dissonanti dei contatti sul social network tendono a proiettare una rappresentazione del mondo secondo l’immagine che piace ai pregiudizi dell’utente, non un ritratto della varietà dei punti di vista che lo compongono.

La ragione sottesa a questo sviluppo dei servizi dei giganti del web risiede nella loro necessità di sviluppare un profilo di persuasione adattato fino al limite del singolo soggetto: uno schema di interpretazione delle preferenze personali che permette di identificare le corde sensibili o delle opinioni influenti attraverso le quali promuovere le proposte pubblicitarie degli inserzionisti. Sia Google sia Facebook, in maniera un po’ diversa, ma sempre per volumi sopra l’80%, dipendono per il loro fatturato dagli investimenti promozionali che sono veicolati dalla loro piattaforma. Le promesse di efficienza e di forza persuasiva, calcolate fino al successo individuale, rappresentano la chiave di volta del loro successo finanziario.

Ma dopo la denuncia, anche Pariser ha imparato una lezione importante dalla sua ricognizione. Upworthy è la sintesi tra la creatività nel metodo di raccolta fondi (fino al 2012 impegnata a beneficio di cause altrui) e la convinzione che sia possibile sfruttare i meccanismi dei social media per eseguirla anche in favore di una piattaforma giornalistica. La sua.

Il progetto è stato sviluppato con Peter Koechley, uscito da the Onion, e Chris Hughes, proveniente da Facebook (e il contributo di un primo finanziamento da 8 milioni di dollari, più un supplemento di altri 4 milioni messi a disposizione dal National Endowment of Arts). La ricetta per ambire al ruolo di media company con la crescita più veloce di tutti i tempi include tutti gli strumenti che possono essere razionalmente adottati per ottimizzare la viralizzazione dei contenuti sui social network: la selezione (o la fabbricazione) di contenuti seducenti; la segmentazioni in moduli dell’offerta informativa al fine di massimizzare la disposizione al clic degli utenti su Facebook; l’ottimizzazione tecnologica di ciascun modulo per riscuotere il maggior beneficio possibile dal passaggio sui social media; il vaglio dei pezzi confezionati attraverso il test A/B di Google; tanta fortuna.

La selezione di un buon contenuto non è consegnata al buon cuore dei redattori, ma distillata da un breviario che istruisce l’interrogatorio della notizia candidata meglio di quanto i vecchi parrochi sapessero fare con gli adolescenti: quante volte figliolo? L’episodio deve esibire un eroe, un cattivo, un arco narrativo emozionale, deve ispirare un messaggio super-edificante, deve apparire al momento giusto nel posto giusto, deve accoppiare ragione e sentimento. Non è una scoperta: chi non ama i bei film di Hollywood? Da quelle parti la ricetta è nota da sempre (anche se per lo più gli americani non sanno, e non vogliono scoprire, che il merito dovrebbe essere riconosciuto ai russi, da Propp ai formalisti, giù fino alla Scuola di Praga). 

L’esperienza insegna: il 66% delle storie postate non arriva a 20 mila pagine viste; il 6% arriva a 100 mila, il 3% a 200 mila, l’1,6% a 300 mila, meno dell’1% a 500 mila, lo 0,5% a 750 mila – ma solo 11 storie superano la soglia del milione. Scopo del gioco: ingegnerizzare il metodo che produce questo risultato gratificante (per sé e per gli inserzionisti). La narratologia offre la struttura di base: tutti odiano i cattivi e amano i buoni, tutti apprezzano che gli eroi prevalgano con mezzi leciti, ma soprattutto – come insegna la lezione di The Filter Bubble – a tutti piace sentirsi raccontare quello che si ritiene giusto e vero. 

Ma dopo aver selezionato il contenuto giusto, è necessario impacchettarlo bene perché i social media facciano il loro dovere divulgandolo fino ai quattro angoli del mondo. Il titolo, l’immagine e il video sono gli elementi decisivi. L’ingenuità della tradizione accademica è mostrata dall’ultimo studio norvegese, pubblicato nell’ottobre 2013, sugli ingredienti che agevolano il clic sul titolo di una news: 11 pagine per concludere che la formula linguistica che coinvolge il lettore con un appello diretto e con una domanda è meglio di una clausola lineare apodittica. I redattori di Upworthy devono compilare 25 titoli diversi per ogni pezzo generato dalla piattaforma; le formule vengono sottoposte al test di selezione di Google e passa solo quella che raccoglie sul campo il maggior numero di clic. Se il titolo deve essere una scienza, il senso di Pariser per i soldi lo rende un ricercatore di serietà impeccabile.

A proposito, i soldi: qual è il metodo Upworthy di battere cassa? I fondatori hanno esiliato banner e popup dalle loro pagine fin dal primo giorno. Per chi ha intrattenuto 286 milioni di utenti unici nel corso del 2013, questa scelta suona davvero come uno spreco di risorse. D’altra parte il giornale ha una vocazione specifica, proclamata sul New York Times direttamente da David Carr a pochi giorni dal lancio: coniugare qualità con volumi di traffico da sito mainstream. Pariser assicura che tutte le notizie passano attraverso il controllo di un duro fact checking, e che l’obiettivo di accumulare grandi numeri non deve andare a discapito della serietà dei temi trattati, dalla salute, alla discriminazione razziale, alle violenze domestiche. Il criterio di misurazione del successo non viene quindi collegato alla banalità feticistica del numero di pagine viste, ma viene vincolato a quello più impegnativo dell’attenzione dedicata dagli utenti a ciascun pezzo pubblicato. 

L’attenzione si misura in termini di durata della lettura e intensità dell’interazione del visitatore con l’offerta informativa della pagina. L’algoritmo di calcolo è ancora velato dal segreto, ma sembra già piacere agli inserzionisti che condividono il programma di native advertising della testata. Pariser concede solo un esempio della formula di promozione escogitata: nel video di un ragazzo ugandese rifugiato in America per ragioni di sicurezza personale, la chiamata che gli permette di conversare con i parenti in patria avviene attraverso Skype, che è lo sponsor della notizia. Puro product placement.

Il filtro che produce bolle comunicative si è convertito in un filtro magico che macina dollari e successo di pubblico nelle mani di Eli Pariser. Non solo l’Aurora di Omero, anche un intellettuale può avere le dita dorate: se uno studioso assimila la sua lezione fino a trasformarla in denaro sonante, commette peccato (quante volte figliolo?) o ha capito il suo ruolo meglio dei suoi colleghi?

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