Chi non l’ha sperato, ogni volta che ha dovuto dire addio ad una persona cara. Chi non ha desiderato ardentemente di vederla tornare, rifare le stesse cose, ridere per le stesse battute. Chi non ha sognato di aprire gli occhi e di essere catapultato al momento prima della sua dipartita: un rewind indolore e veloce per mettere a tappeto quel dannato Dio della morte, contro il quale usciamo perennemente perdenti. Per parlare di Resurrection questa premessa è d’obbligo perché rende palese, sin dal principio, il motivo per cui la serie, iniziata la scorsa settimana negli Stati Uniti, funziona: perché ci tocca nel profondo. Perché ci chiama in causa in prima persona. Perché grazie a quell’ipotetico “e se…” che si trasforma in realtà consente di dare forma a quello che tutti noi abbiamo pensato almeno una volta nella vita.
Tutti coloro che sono abituati a soddisfare i propri bisogni seriali in rete, leggendo la trama potrebbero fare spallucce e asserire che in fondo non è nulla di nuovo. E forse avrebbero ragione: lo scorso anno in Francia è andata in onda Les Revenants, che può essere considerata la cugina, non ufficiale, di Resurrection. Cambia la location, cambierà lo svolgimento dei fatti, ma il concept iniziale è lo stesso: i morti ritornano, senza essere invecchiati di un giorno, senza ricordare nulla della loro scomparsa. Così, tutto d’un tratto, ritornano: affamati, leggermente intontiti, ignari.
Attenzione però non parliamo di remake, perché non lo è: le fonti a cui sono ispirate le due realizzazioni sono diverse. Les Revenants nasce come rifacimento di una pellicola omonima francese del 2004 (e il successo ha fatto sì che si sta producendo la versione gemella americana, che si chiamerà The Returned e che sarà trasmessa nel corso dell’anno da A&E); Resurrection, nuova chicca di ABC, invece affonda le sue radici in un libro di Jason Motts intitolato (giusto per rendere le cose complicate) The Returned. Eppure, sebbene diverse, per chi ha visto la produzione francese la sensazione di déjà vu è evidente. Ma non importa. Davvero, non importa. Perché mette sul tavolo una babilonia di sentimenti, di emozioni e di timori. Perché ci spinge a chiederci se di fronte alla realizzazione di un sogno reagiremmo davvero come ce lo siamo sempre immaginati. Sta tutto in quella parola, che già un altro telefilm ci ha insegnato ad amare: fede. Lungi dall’idea di fare alcun paragone con Lost: le serie rivoluzionare in grado di cambiare il modo di pensare e vivere la televisione avvengono di rado e non è questo il caso. Ma Lost ha dimostrato come alle volte nella vita non serve essere essere uomini di scienza, bensì men of faith, come si ribadiva in ogni puntata della serie di J.J. Abrams. E Resurrection ci chiede in fondo di fare la stessa cosa, di mettere da parte pragmatismo e logica e di abbracciare l’ipotesi di un futuro diverso. Non solo. Ci chiede persino di fare tabula rasa del nostro immaginario sui non morti, relegando a pura fantascienza l’immagine degli zombie di romeriana memoria. Dite addio agli esseri claudicanti e spaventosi, Thánatos indossa qui una nuova veste.
Se tutto questo non basta per dare a Resurrection una chance, ci pensano i nomi dietro la produzione. Il primo è quello di Aaron Zelman, creatore dello show che vanta nel curriculum ruoli come produttore esecutivo in Damages e in The Killing. L’altro è quello di Omar Epps, l’indimenticabile Eric Foreman in Dr. House. Per lui Resurrection, su un piano spirituale, altro non è che una continuazione della parte recitata nel noto drama medico, con l’eterno conflitto tra scienza e ascetismo in primo piano. Stavolta, però, senza un “dio” burbero e zoppo a predicare l’arte del cinismo.