Liberisti immaginari: 20 anni di boom di spesa pubblica

Enti previdenziali e province nel mirino

Ogni volta che nel dibattito pubblico affiora la necessità di ridurre in maniera consistente la spesa pubblica al fine di permettere una riduzione di pressione fiscale di pari importo, da più parti si leva un grido di dolore secondo cui in questi “vent’anni di liberismo sfrenato” la spesa pubblica avrebbe già fatto tanti, troppi, sacrifici. Non ultimo, in una recente intervista a L’Unità Stefano Fassina, ex vicemistro dell’Economia, ha espresso dubbi su una riduzione della spesa pubblica per finanziare i tagli di 10 miliardi sulle tasse sul lavoro annunciati dal premier Renzi, dichiarando che «tagliare di 100 euro la spesa per tagliare di 100 euro le tasse rischia di avere un effetto recessivo sull’economia».

I più ragionevoli tra i sostenitori di questa tesi riconoscono che – nonostante il “liberismo sfrenato” – la spesa non si è ridotta, ma sicuramente quantomeno stabilizzata; in ogni caso non è cresciuta tanto quanto avrebbe dovuto al fine di stimolare la domanda aggregata e il Pil. Per verificare se sia veramente è andata così cerchiamo di capire quali voci della spesa pubblica sono aumentate in questo ventennio, e soprattutto dove, e di quanto

La lunghezza esatta della presunta ondata liberista in Italia varia a seconda di chi denuncia il misfatto. In questa sede prendiamo per buona l’opzione più prudente (quella ventennale) e cerchiamo di capire se almeno uno dei precetti del liberismo (la riduzione della spesa pubblica) si sia effettivamente realizzato. In caso affermativo, disponendo di dati disaggregati per comparti, cerchiamo anche di capire in quale comparto della pubblica amministrazione abbia avuto luogo una dinamica del genere.

Occorre innanzitutto verificare l’andamento dell’inflazione nel periodo considerato, al fine di poter riconoscere l’andamento della spesa in termini reali. In secondo luogo – poiché anche un incremento reale può essere giustificato in presenza di un’attività economica in crescita – verifichiamo l’andamento cumulato del Pil reale.

Il tasso cumulato di incremento dell’indice dei prezzi al consumo dal 1990 al 2012 è del 102,56%. Ogni aumento superiore a tale cifra rappresenta quindi un incremento di spesa in termini reali. Nello stesso periodo, l’attività economica reale è cresciuta del 21,82%. Ne deriva che ogni incremento delle uscite pubbliche superiore al 124,38% può considerarsi “eccessivo”, o perlomeno tale da aumentare il peso della spesa pubblica primaria in relazione al prodotto interno lordo.

La Tabella 2 mostra l’andamento delle uscite finali primarie della pubblica amministrazione dal 1990 al 2012, disaggregate tra uscite primarie correnti e uscite in conto capitale.

Le uscite totali primarie del settore pubblico sono cresciute del 136,22% in termini nominali, pari ad un incremento in termini reali del 33,66%, superiore di quasi un terzo all’incremento del Pil reale occorso in quegli anni; tuttavia l’andamento è molto diverso a seconda della macro-tipologia di spesa.

Le uscite correnti primarie, infatti, registrano un aumento complessivo del 151,05%, per un incremento reale del 48,49%, più del doppio rispetto a quanto sarebbe stato necessario per tenere il passo con l’aumento del reddito reale. Le uscite in conto capitale invece, con un incremento nominale del 29,50%, registrano una diminuzione in termini reali del 73,06%.

La “mannaia liberista” sembra quindi aver colpito con decisione proprio nella parte di spesa pubblica che ogni approccio economico (liberista, keynesiano fino a quello marxista) considera invece prezioso per l’accrescimento dello stock di capitale presente nell’economia e per la produttività totale dei fattori. La spesa corrente primaria, invece, è cresciuta in termini reali più del doppio rispetto al Pil.

Un’analisi più approfondita ci consente di comprendere come questa dinamica sia distribuita attraverso i sotto-settori della pubblica amministrazione. Tutti i dati sono considerati al netto dei trasferimenti agli altri comparti, e sempre al netto degli interessi passivi.

Possiamo vedere come le amministrazioni centrali dello Stato abbiano diminuito la loro spesa primaria in termini reali, sia corrente che in conto capitale. Le uscite totali primarie aumentano in termini nominali del 51,72%, per una diminuzione reale pari quindi al 50,84%. In particolare, la spesa corrente primaria diminuisce del 46,19% mentre quella in conto capitale crolla del 78,75%.

Viceversa, gli enti previdenziali e assistenziali – nonostante le almeno sei riforme occorse nell’arco di tempo – osservano un incremento di spesa corrente (gli investimenti sono sostanzialmente nulli) del 248,28%, pari ad un incremento reale del 145,72%, superiore di 6,6 volte all’incremento del Pil.

Le amministrazioni locali aumentano la spesa totale primaria in termini reali (del 32,17%), in misura di poco superiore all’aumento cumulato del Pil. Anche qui vediamo in essere la tendenza ormai assodata, secondo cui la spesa corrente primaria cresce in termini reali (+54,75%) mentre quella in conto capitale soffre una decisa diminuzione (- 59,44%).

Possiamo ulteriormente disaggregare il sotto settore delle amministrazioni locali in quattro comparti: regioni, province, comuni ed enti sanitari locali.

quattro comparti formano due coppie: una composta da enti sanitari e province, che aumentano in maniera consistente la spesa (con incrementi molto forti di spesa corrente primaria e moderate diminuzioni di spesa in conto capitale), e l’altra composta da comuni e regioni, le cui uscite diminuiscono in termini reali (con aumenti di spesa corrente inferiori alla crescita del Pil reale e autentici crolli di spese per investimenti).

Il comparto che registra il maggior aumento di spesa primaria è quello degli enti sanitari locali, con un aumento totale del 57,75% in termini reali (+60,03% spesa corrente, – 15,35% conto capitale).

Per quanto riguarda i comuni, l’aumento reale di spesa corrente primaria è di poco inferiore al tasso di crescita del Pil, ma si accoppia ad una consistente riduzione della spesa reale in conto capitale (-67,65%), per arrivare ad un risultato complessivo che vede la spesa totale diminuire in termini reali del 7,5%.

Una dinamica molto simile a quella dei comuni la troviamo nelle regioni, che vedono una spesa corrente primaria crescere meno del Pil, e un consistente calo degli investimenti.

Proprio al fine di esaminare l’andamento della discrezionalità di spesa pubblica, questa analisi non considera né le spese per interessi passivi (una tipologia che tuttavia nell’arco di vent’anni è difficile considerare totalmente esogena), né i trasferimenti all’interno dei comparti della pubblica amministrazione.

I risultati possono essere così sintetizzati:

i) a livello di settore pubblico, le uscite primarie hanno corso la metà in più rispetto al reddito reale. Tuttavia tale risultato è composto da un autentico crollo della spesa in conto capitale (-73,06%), e da una spesa corrente cresciuta il doppio rispetto al Pil.

ii) a livello di macro comparti, in maniera sorprendente – almeno per chi scrive – non è lo Stato ad aver perso il controllo della propria spesa primaria in questi vent’anni (segno più che altro che è la componente di interessi passivi ad essere esplosa), bensì la spesa degli enti previdenziali. Nonostante l’effetto cumulato delle riforme pensionistiche, la spesa corrente in quel settore è cresciuta in termini reali più di sei volte e mezzo il Pil.

iii) il comparto delle amministrazioni locali nella sua interezza si comporta complessivamente come il settore pubblico (vedi punto i). Tuttavia, al proprio interno verifichiamo una doppia dinamica: mentre comuni e regioni (al netto della componente sanitaria) diminuiscono la propria spesa in termini reali (e fanno crescere quella corrente meno del Pil), le province e gli enti sanitari locali vedono la propria spesa primaria in termini reali crescere di circa due volte e mezzo il reddito reale.

Un quadro forse più composito di quanto si creda, tuttavia rimane difficile credere alla leggenda del liberismo sfrenato. Ancora più complesso, nella ormai irrinunciabile opera di riduzione della spesa pubblica, è capire dove agire.

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