Il dramma rinascimentale di Arcore

Il dramma rinascimentale di Arcore

È una tragedia rinascimentale. L’ultimo Delfino del Cavaliere annuncia trionfante, in televisione, l’arresto del primo Delfino del Cavaliere. E davvero non ci sarebbe niente di strano nell’osservare Angelino Alfano, il ministro dell’Interno, che spiega agli italiani il lavoro d’intelligence e di polizia che ha messo le manette, in Libano, a Marcello Dell’Utri. Ma qualcosa riga il quadro, stride. E lentamente s’impone come un’impressione indefinibile, fastidiosa, sottile e incongrua. Cioè la sensazione d’assistere a una nemesi, a un drammatico atto di disfacimento politico e umano.

E non soltanto perché Alfano è stato a lungo amico di Dell’Utri – «è un perseguitato», disse, prima di litigarci e di escluderlo dalle liste del Pdl. Ma perché l’immagine del figlioccio che arresta il suo più vecchio padrino politico, la figura del primo braccio destro del giovane e vincente Berlusconi messo ai ceppi dall’ultimo braccio destro del vecchio e sconfitto Berlusconi, rende in un lampo, in una scintilla feroce, l’idea d’un tempo inesorabilmente scaduto.

Un’epoca che si chiude corrodendosi dall’interno, tra i miasmi della decomposizione e i dolori del tradimento. D’altra parte la crudeltà di un contrappasso, prima di erompere, è avvertibile come una scarica elettrica. Ed è tutta lì, in quelle parole e in quei fotogrammi, nella voce monotona e imperiosa di Alfano, che scorre come l’acqua del fiume, mentre alle sue spalle s’intravvedono i simboli del suo nuovo partito, che non è più quello del condannato Berlusconi né del latitante Dell’Utri. Ed è molto più d’un dettaglio shakespeariano, tutta questa storia rimanda al sangue e alla decadenza dell’Italia cortigiana del Cinquecento, agli stiletti e al veleno, all’ambizione e alla consunzione, ai matrimoni tra consanguinei e agli improvvisi voltafaccia di potere, insomma ai Borgia e agli Sforza.

Per il momento si avverte nell’aria solo una minaccia confusa, una vaga inquietudine, ma in Forza Italia, nel Castello di Arcore, ne sono turbati come se presentissero la catastrofe imminente. E guardano l’ambiente tranquillo che gli sta attorno, i corridoi del partito e i giardini della villa, come si guarda qualcosa che si sa di avere ormai perduto. Berlusconi condannato e prossimo ai servizi sociali, Dell’Utri latitante ammanettato da Alfano, e il vecchio Paolo Bonaiuti, l’aiutante di campo del Cavaliere, il maggiordomo di Palazzo Grazioli, che abbandona anche lui la casa, fa ciao ciao con la manina, si ritira, lontano e deluso: tradisce Berlusconi perché si sente tradito da Berlusconi.

«Bonaiuti non può andare via. È troppo importante per tutti noi, lui è parte della nostra storia», si lamenta Mariastella Gelmini. Domina così un sentimento d’inconsapevole dissoluzione, il berlusconismo è un mondo che teme di morire, che si uccide fraternamente. Il loro è un tormento rimosso costantemente dalla volontà e risospinto fuori dagli eventi, dalle condanne, dagli addii, dal silenzio nero di Gianni Letta, dalla giustizia implacabile, dalla teoria dei sondaggi a picco. È la loro croce, la loro piaga nascosta e funebre. Berlusconi e Dell’Utri nascono insieme, fratelli nel tempo felice e prospero della Edilnord e di Publitalia, e oggi cadono insieme per mano della scure giudiziaria. L’uno, consegnato a una forma morbida di reclusione, appare avvolto e avvinto dal giovanilismo protervo di Matteo Renzi. L’altro si avvia mestamente al carcere vero, e a una terribile sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre nel partito, dove i cortigiani vivono da separati in casa, ci si contende l’incorporeità dei numeri con Alfano e gli altri uomini che furono berlusconiani e oggi sono considerati a malapena dei traditori.

I sondaggi vengono scagliati da una parte all’altra di questa nebulosa di centrodestra come dei sampientrini contundenti, degli sputi schiumosi. «Alfano non arriva al quattro per cento. È come uno di quei cani di piccola taglia che abbaiono molto», dice Giovanni Toti, con foga fideistica. E Renato Schifani, che del Cavaliere fu presidente del Senato e ventriloquo, risponde che «all’opposizione Berlusconi è debolissimo. Renzi gli mangia la pappa in testa. Noi superiamo il quattro per cento, mentre loro si faranno superare da Grillo». Dunque i conti non tornano, anzi, nel centrodestra sfasciato non torna più nulla, ma ciascuno è pronto a indossare comunque l’armatura, ognuno si prepara a una strana guerra che ha il sapore della dissoluzione. Martedì la sentenza su Dell’Utri, giovedì toccherà al Cavaliere. L’attesa dello scontro li sorregge, li sospinge, agisce come un anestetico, suscitando parvenze di mobilità, spasmi di vitalità in qualcosa che non c’è più, che è stata amputata.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter