C’è chi sostiene che l’infornata di turboliberisti nelle grandi aziende di Stato sia stata voluta soprattutto da Marco Carrai, eminenza grigia del premier Matteo Renzi, grande estimatore dei Chicago Boys o delle teorie dell’Istituto Bruno Leoni di Alberto Mingardi, quel gruppetto di liberali che sognano un modello statunitense anche nel nostro Paese. È stato Carrai a presentare Zingales a Renzi, come aveva fatto in passato con Michael Leeden, animatore del think tank repubblicano American Enterprise Institute, tra i tanti punti di riferimento per gli sparuti libertari e liberisti italiani. Del resto, sarebbe difficile parlare di lottizzazione da Prima Repubblica, cosa in cui Renzi ha saputo destreggiarsi egregiamente, nel caso di questi studiosi e intellettuali di avanguardia, oggi cooptati in plancia di comando, con un passato non ancora chiuso con Fare per Fermare il Declino ma che in un modo o nell’altro hanno spesso avuto a che fare con lo Stato, tra consulenze per i loro studi di avvocati o attività di lobby che alla fine va sempre a incontrare la politica.
Il 2014 passa allo storia come quello in cui i Chicago Boys entrano nei palazzi a cui fanno le pulci da anni con critiche al vetriolo ed editoriali all’arma bianca, nella speranza di abbattere il mostro dello Stato e far vincere il libero mercato. «Un ornamento» lo definisce chi, questo mondo fatto da gente come Luigi Bisignani, lo conosce da anni; esperti del settore che già sanno che l’infornata liberista «non toccherà palla nei colossi» a partecipazione statale. A marzo sono arrivate invece le chiamate ai ministeri: Carlo Stagnaro consigliere economico al ministero dello Sviluppo guidato da Federica Guidi, poi Piercamillo Falasca, con lo stesso ruolo, alla corte del sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. Ad aprile piovono le nomine pesanti, quelle nei cda delle società di Stato, cenacoli di intrecci tra business e politica, clientelismi e lottizzazioni, che i liberisti doc avversano da tempo immemore. In un solo colpo la lista delle nuove poltrone annovera Luigi Zingales nel consiglio di amministrazione di Eni, Alessandro De Nicola nel medesimo organismo di Finmeccanica e Alberto Pera in quello di Enel.
Curricula brillanti, professionisti stimati che con blog, tavole rotonde e studi hanno spinto il dibattito liberale italiano degli ultimi anni. La missione è multiforme: incrementare la presenza della società civile, restituire risorse all’economia, liberare la concorrenza e il mercato. Liberisti doc. Alcuni di loro hanno frequentazioni politiche e culturali comuni come De Nicola, Zingales e Stagnaro, promotori di Fare per Fermare il Declino, movimento di rosso vestito che ha provato a riunire liberali d’Italia salvo atomizzarsi in faide interne deflagrate dopo la spoliazione di titoli di Oscar Giannino operata dallo stesso Zingales. Sono poi tutti animatori di Noisefromamerika, altro sito specializzato nel fare le pulci allo statalismo. Senza dimenticare l’Istituto Bruno Leoni, apprezzato think tank e culla di pensiero che tra le sue fila vede gli stessi Stagnaro e Falasca. Severi critici dello Stato imprenditore e dei tentacoli pubblici sulle grandi aziende strategiche, oggi si ritrovano cooptati nelle stanze dei bottoni. L’impresa, impossibile per molti, è quella di «cambiare verso» al trend dei colossi pubblici. Comunque un segnale nuovo rispetto al passato. Grido di battaglia o dolce utopia, è presto per dirlo.
Michele Boldrin
Sarà un caso, ma di articoli dei vari think tank sulle nomine pubbliche ce ne sono stati pochi, quando un tempo invece abbondavano. A parte Franco Debenedetti sul Foglio, che ha saputo destreggiarsi spiegando come «non fossero male, ma ha sprecato un’occasione», di quelle critiche fulminanti sull’intromissione della politica nelle aziende non c’è traccia. E per capire come in Fare abbiano accolto la nomina dei turboliberisti basta fare un giro sull’account twitter di Michele Boldrin, tra i principali animatori del pensiero liberista italico. Alla domanda su cosa ne pensasse di Zingales in Eni, il prof è stato chiaro: «Le capriole intellettuali ed i contorcimenti etici non sono mai stati il mio forte. Li lascio ai “liberisti doc”». Non solo. In questi giorni ha continuato a sparare, ancora una volta sul Cane a sei zampe, colpendo proprio la questione privatizzazioni: «Privatizzare Eni. Politica energetica ed estera venga gestita da parlamento non da consiglio amministrazione nominati!». Tanto basta per definire le nomine dei turboliberisti e le speranze che da dentro possano cambiare qualcosa.
L’iniezione ha fatto storcere il naso a più di un dirigente democratico di scuola diessina, in area fassiniana ad esempio non fanno i salti di gioia, mentre Oscar Giannino applaude pubblicamente «felice per le nomine di tre liberisti come De Nicola, Zingales e Pera, tutti e tre per privatizzazioni e concorrenza». La falange di anti-statalisti «non dispiace affatto» nemmeno al premier Matteo Renzi che di quelle nomine è il fautore insieme al ministro dell’Economia Padoan. D’altronde la profonda sintonia con l’attuale presidente del consiglio, o quantomeno con l’impianto ideale del primo rottamatore della Leopolda, arriva da lontano. Qualcuno dal fronte centrista e altri da battitori liberi, la pattuglia liberista ha da subito accolto a braccia aperte il bagaglio politico-culturale del sindaco innovatore.
Oltre alle dichiarazioni di stima e alla navigazione filo-renziana di alcuni di loro svetta un’iniziativa di Fermare il Declino che, a ridosso della sconfitta di Renzi alle primarie 2012 per la candidatura alla premiership, provò a lanciare l’opa sull’elettorato renziano: «Se hai votato Renzi vieni con noi, abbiamo un’agenda così simile alla sua che molti dei nostri hanno votato per lui. Un’agenda che non può essere portata avanti da Bersani o Vendola». La chiamata alle armi proseguiva spiegando che «Renzi ha perso ma la sua battaglia non è stata invano. Ha dimostrato che nel paese c’è un grande bisogno di idee e facce nuove, che la lotta contro lo statalismo ha un grande seguito popolare, che i dieci punti di Fid (condivisi dai renziani) non sono il desiderio di una ristretta elite, ma hanno un ampio seguito anche all’interno del Pd, e ancora di più nel paese».
Nel 2011 partecipò alla Leopolda e secondo alcuni è stato in predicato di diventare il «Tremonti di Renzi». Luigi Zingales, economista alla Chicago University ed editorialista del Sole 24 Ore, da consigliere indipendente di Telecom Italia passa ora al consesso di Eni. Dopo gli ammiccamenti renziani e l’esperienza a Fermare il Declino, poi terremotata dalle rivelazioni su Giannino, oggi la nomina ai piani alti di San Donato lo riavvicina all’inner circle del premier. Ma prima di salutare il colosso delle telecomunicazioni Zingales ha tuonato contro la buonuscita di 8,2 milioni di euro riconosciuta all’ex presidente esecutivo Bernabè: «Secondo me grida vendetta, come anche la mancanza di trasparenza avuta sul convertendo». Da anni si batte per mettere fine al controllo statale sulle grandi aziende, a partire proprio da Eni. Ma oggi mette le mani avanti: «Da privato cittadino rimango a favore delle privatizzazioni delle imprese statali, ma questa è una decisione politica che spetta al ministro e al governo, non ai consiglieri di amministrazione. Che sia in procinto di essere privatizzata o no, qualsiasi impresa statale deve essere gestita bene. E il mio compito come consigliere è proprio quello di assicurare che la gestione della società sia volta a creare il massimo valore possibile». A inizio aprile, interrogato a margine del forum Ambrosetti, parlava così del Cane a sei zampe: «Gestire l’Eni non è facile e se uno cerca persone di talento sono più i no dei sì. Se poi ci sono forti limiti rispetto a quanto può pagarli allora li attira ancora di meno».
Non solo. Lettera43.it, nei giorni scorsi, ricordava come solo poche settimane fa, proprio Zingales aveva appunto messo in guardia dai rischi di una scarsa trasparenza nella scelta delle nuove governance. Leggiamo dal Sole 24 Ore del 3 marzo 2014: «Un cambiamento radicale non solo nelle persone, ma nel metodo, un’affermazione del principio della meritocrazia – sconosciuto in Italia – potrebbe avere un enorme effetto positivo non solo sul morale degli italiani, ma anche sulla nostra economia». E aggiungeva: «Se la persona va sostituita il governo dichiara pubblicamente le caratteristiche della persona che vorrebbe in quella posizione e gli obiettivi che dovrebbe conseguire. Sulla base di questa indicazione si chiede alle prime cinque società di cacciatori di teste sul territorio nazionale di presentare un nome ciascuna. Dalla rosa di cinque nomi il governo elimina i due che considera meno adatti e poi sorteggia (in modo pubblico) il nominato tra i tre rimanenti». Nulla di tutto questo è avvenuto.
Tra i fondatori di Fermare il Declino c’è anche Carlo Stagnaro, ligure classe 1977, una laurea in ingegneria e un Phd all’IMT di Lucca. Direttore del dipartimento studi e ricerche dell’Istituto Bruno Leoni, di cui è tra i fondatori, da sempre si muove sui temi di economia dell’energia e ambiente, ma anche nei servizi pubblici per i quali chiede privatizzazioni e diete: «Quando il gioco si fa duro, i duri tagliano le municipalizzate» titola uno dei suoi ultimi post sul blog ospitato da Huffington Post. Ora è approdato in via Veneto, consigliere economico del ministro dello Sviluppo. Il suo è un contributo di idee e contenuti stimato da molti, si batte contro le lottizzazioni nelle società pubbliche, chiede «coraggio» alla politica e nel 2011 scriveva sul Foglio: «Il costo della lottizzazione potrebbe essere tollerabile se producesse un beneficio, ma chi l’ha mai visto questo beneficio?»
Nella pattuglia dei liberisti al potere c’è poi Alessandro De Nicola, avvocato d’affari dello studio Orrick, presidente di Adam Smith Society, prof alla Bocconi e al Master del Sole 24 Ore, ma anche membro dell’organismo di Vigilanza di ING Direct, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Credit Suisse AG e pure di Expo 2015. Editorialista de La Repubblica, dalle colonne di Largo Fochetti ha chiesto liberalizzazioni per il trasporto ferroviario, quello pubblico locale e per i servizi postali, rivoluzioni spesso impossibili nel Belpaese anche perchè «uno dei maggiori ostacoli alla liberalizzazione è la pervicace presenza del Leviatano all’interno dell’economia, in un intreccio fatto di proprietà azionaria, golden share, concessioni, autorizzazioni, influenze politiche e sindacali che spaziano dalla concessione di crediti al salvataggio delle aziende decotte». Lo stesso De Nicola, oggi con un posto nel cda di Finmeccanica, avversava «la natura dello Stato-imprenditore, che provoca guai soprattutto nei settori dove le sue aziende godono di protezioni normative, nonostante, come è ovvio, non tutte le società pubbliche siano malvestite. La vicinanza con il regolatore, le influenze del potere politico, il ripianamento delle perdite a piè di lista, l’occhio di riguardo del sistema bancario, le assunzioni legate all’appartenenza partitica sono fattori che generano distorsioni della concorrenza, inefficienza e al peggio corruzione». E nel suo curriculum ricorda i progetti di corporate governance per Eni, Fiat, Poste Italiane, F2I, Terna o Banca Intesa: quel mondo lo conosce e anche bene.
Il più giovane del gruppo liberista si chiama Piercamillo Falasca, classe 1980, laurea in Economia delle Amministrazioni Pubbliche alla Bocconi e master in Discipline Parlamentari e Politiche Pubbliche alla Luiss. Candidato alla Camera con Scelta Civica alle ultime politiche e fellow dell’Istituto Bruno Leoni, oggi fa il consigliere economico del sottosegretario agli esteri Benedetto Della Vedova. Alberto Pera invece è avvocato esperto di concorrenza, già coordinatore regionale del Lazio di Fermare il Declino e tra i promotori di Ali, Alleanza Liberaldemocratica per l’Italia, insieme a De Nicola, Giannino e altri fuoriusciti da Fare. Prima di approdare nel board di Enel, ha lavorato con lo Stato in diverse occasioni: segretario dell’Antitrust, capo delle ricerche economiche in Iri, ma anche un ventaglio di consulenze pubbliche operate dallo studio legale di cui è socio, il Gianni-Origoni-Cappelli-Grippo e partners. Proprio la coordinatrice di Ali Silvia Enrico intervistata da Formiche.net prova a smontare il corto circuito dei privatizzatori nelle partecipate del Tesoro: «Se dal socio di maggioranza dovesse arrivare un’indicazione di apertura al mercato delle società nelle quali sono stati nominati amministratori, sono certa che De Nicola e Pera non faranno melina come altri nel passato».
Ma se ieri in un’area liberale falcidiata tra litigi, egocentrismi e micropartiti frammentati, serpeggiava delusione per «uomini e idee che non fanno breccia ai piani alti», oggi che un’avanguardia riesce a giungere a destinazione le accuse si moltiplicano: «liberisti statalizzati» o ancora «liberisti con le aziende degli altri», «lottizzati al pari di tanti altri boiardi» con l’aggravante di essere «quelli che dovevano rottamare la mentalità statalista». Al contrario i sostenitori dei turboliberisti ribattono che «averli nei colossi di Stato è l’unico modo per avviare un cambiamento dall’interno, peraltro di buon senso». Ci riusciranno davvero? «Nel paese ideale non sarebbero semplici consiglieri ma ministri». Sognare non costa nulla, nemmeno ai Chicago boys.