Quando il rottamatore era un parruccone inglese

Quando il rottamatore era un parruccone inglese

Un fragile governo di coalizione, comandato da vecchi politici, sostituito in piena crisi politico-economica, sia interna che internazionale, da un giovane rampante e figlio d’arte, molto ambizioso e preparato, anche se schernito dai suoi avversari politici che lo chiamano “bambino” o “scolaro”. Non stiamo parlando di Matteo Renzi però, ma di William Pitt detto “Il Giovane”. Quando sale al potere, il 19 dicembre 1783, ha solo 24 anni:  la potenza inglese sembra in netto declino. La perdita delle tredici colonie americane, il colpo inferto dalla Francia e la fragilità del sistema politico, che aveva visto la creazione del governo di grande coalizione tra i Whig di Charles James Fox e i Tory di Lord North durare poco più di otto mesi facevano pensare che la Gran Bretagna dovesse lasciare il passo alla Francia di Luigi XVI, che secondo il Compte rendu, un resoconto presentato due anni prima dal ministro delle Finanze francese Jacques Necker, godeva anche di una certa solidità nei conti pubblici, mentre il debito pubblico britannico, dopo la guerra contro i nascenti Stati Uniti, aveva raggiunto la cifra notevole di 243 milioni di sterline.

Pitt, dopo tre tentativi andati a vuoto, raggiunge il potere. Per gli analisti, questo era un mince pie cabinet, un governo che non avrebbe superato le feste natalizie, come la mince pie appunto, torta festiva a base di frutta e spezie. E soprattutto come avrebbe fatto uno “scolaro” che ancora non aveva finito gli esami per laurearsi in legge, ad occuparsi degli affari di uno stato? Il giovane Pitt si mise subito al lavoro. Riformando un carrozzone pubblico, la East India Company, che governava le colonie indiane di Madras e Bombay in modo inefficiente e corrotto, mettendola sotto diretto controllo governativo.

Mise mano alle finanze combattendo l’evasione fiscale abbassando i dazi sulle importazioni di tè, vino, tabacco e alcolici, i beni su cui si basava maggiormente il contrabbando, che nel 1783 rappresentava il 20% delle importazioni totali. Ridusse, nel giro di otto anni, il debito di 73 milioni, riportandolo sotto controllo grazie all’uso massiccio della carta moneta al posto dell’oro e istituendo un fondo d’investimento pubblico con l’obiettivo dichiarato di raccogliere un milione di sterline all’anno. Però si scontrò anche lui con due crisi istituzionali: la prima nel 1785 quando non riuscì ad abolire 36 “borghi putridi” (circoscrizioni parlamentari con pochi elettori usati come feudo elettorale sicuro) né ad allargare il suffragio a un maggior numero di individui per l’opposizione dei parlamentari fedeli a Fox e a North e per qualche franco tiratore nelle fila dei suoi sostenitori. Ma ancora più grave fu la follia che colpì il sovrano, re Giorgio III, nel 1788, che avrebbe dovuto cedere la reggenza al principe di Galles, favorevole a North. Pitt riuscì abilmente a dilazionare le tempistiche lasciando che i suoi parlamentari praticassero un lento ostruzionismo, fino a che il re non si riprese e tornò sano di mente. Con questo consolidamento, il primo governo Pitt fu in grado di affrontare con successo l’ascesa della Francia rivoluzionaria, riuscendo anche a imporre una primissima tassazione sul reddito e a durare ben 17 anni, fino al 14 marzo 1801. Venne richiamato una seconda volta, dal 1804 al 1806, per affrontare la minaccia di Napoleone, fino alla sua morte, avvenuta a 46 anni, di poco più giovane di Enrico Letta il giorno del suo insediamento. Il suo governo non fu senza ombre, come ad esempio l’abbassamento all’età minima lavorativa dai sette a cinque anni per sostenere il nascente sistema industriale. Ma all’età di Matteo Renzi, Pitt era già primo ministro da quindici anni. Ed aveva dovuto affrontare due crisi internazionali ben peggiori della crisi di Crimea. Chissà se Renzi invece riuscirà a durare almeno quindici mesi.

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