Il fatto è…
Pare che fosse il ventuno di aprile, giorno di sant’Anselmo, nell’anno 753 avanti Cristo, quando Romolo prese un aratro e tracciò sul colle Palatino i confini della nascente città di Roma. Che fosse proprio il ventuno e non il nove o il quattordici, qualcuno lo stabilì non so quando, dopo calcoli un po’ astronomici e un po’ astrologici e il solo pensiero di mettere insieme le due materie, vicine solo per assonanza, potrebbe far sorgere qualche dubbio. Ma in fondo che importa? Roma è lì da quel dì e se a tutti va bene che il suo compleanno sia il giorno ventuno va bene senz’altro anche a me. Quel che è certo, però, è che quel tale Anselmo ancora non era nato per nulla, né era nei più lontani pensieri dei suoi trisavoli e men che meno gli si poteva dare del santo.
Il racconto
Sor Romolo, ingegnere
Me lo immagino, Romolo, svegliarsi al mattino sotto le frasche, lungo la riva sinistra del Tevere, con la lupa a far la guardia al suo sonno e Remo chissà dove, a caccia di leprotti e mirtilli, per il pranzo e il dessert.
Me lo immagino, Romolo, svogliato e indolente ad accendere il fuoco, per scaldare una tazza di latte di capra e gustarsi poi, con il sole più alto che no, un maritozzo con la panna, che se ci penso smetto di scrivere e corro in pasticceria.
Tranne il mattino di quel ventuno d’aprile, quando – immagino – chissà cosa aveva mangiato la sera prima, perché Romolo si svegliò alle prime luci dell’alba, sempre con la lupa a far la guardia, ma con il fratello Remo ancora arrotolato nei sogni.
Salito fino al punto più alto del colle Palatino, si allungò in punta di piedi poi, non contento, posizionò con cura un tavolo proprio al culmine, verificandone la stabilità, mise una sedia al centro del piano, quindi scalò agilmente tavolo e sedia e, ritto più in alto della vetta, si guardò intorno osservando con occhio ispirato l’ambiente circostante, abitato fino ad allora soltanto da lui, dal fratello, dalla lupa, dal leprotto e dai mirtilli.
Dagli accampamenti e dai colli vicini, altri insonni e mattinieri si avvicinarono incuriositi, attratti dall’insolito fatto. Radunata una piccola folla, Romolo di lassù cominciò a dispensare ordini come un vero comandante, tanto che ognuno si affrettò a obbedire.
«Laggiù, in quel piano – strillò – si segni un grosso cerchio sul terreno, che poi ci faccio costruire il Colosseo. Anzi, er Colosseo, che da queste parti usa dire così.»
In meno di mezza giornata il cerchio fu tracciato, tanto perfetto da poterne calcolare facilmente superficie e perimetro.
«Oltre il fiume – indicò – sotto monte Mario, ci mettiamo lo stadio Olimpico, con la curva Nord verso Nord e la curva Sud verso Sud, le bandiere, i tifosi e tutto il resto, lo stadio dei Marmi, il Foro Italico e gli impianti per le gare più appassionanti, che mica si vuole essere meno degli olimpici di Grecia, nevvero?!»
Giammai, giammai, e tutti al lavoro.
«Quel bosco – si raccomandò – lo ripuliamo per bene, poi ci mettiamo la bella villa Borghese e, soprattutto d’estate, ce ne stiamo serenamente al fresco.»
«Lì – continuò – ci mettiamo piazza Navona e questa sera, dopo cena, tutti a giocare a battaglia navale!»
«Di là – ordinò – la stazione Termini, per i treni che vengono e vanno, ma senza troppa fretta, ragazzi, che tanto cosa vuoi che sia un piccolo ritardo?»
Un ragazzetto, visto quel tipo lassù a strillare a squarciagola, pensò di rendersi utile e gli porse un bicchiere di acqua fresca del Tevere, che allora – pare impossibile – era pulita, brillante e rigenerante.
Me lo immagino, Romolo, posizionare i Fori Imperiali come se stesse approntando una scacchiera per sfidare, chissà, il fratello Remo o non so chi; trovare il posto migliore per le terme di Caracalla, che nemmeno sapeva chi sarebbe stato, un giorno, questo tale Caracalla. Me lo immagino decidere, senza pensarci poi troppo e non ripensandoci per nulla, dove dare alloggio al Papa che – non so se mi spiego – era er Papa, mica mio cugino Filippo che Papa, ti assicuro, non lo faranno mai.
Però, più o meno, deve essere successo proprio così, altrimenti non mi spiego come sia che oggidì tutti questi luoghi siano lì dove sono, eppure son lì davvero, con l’aggiunta nel tempo di vie larghe e strette, piazze, piazzali, vicoli e viali, che senza cartina ci si perde a ogni incrocio. E verso sera, con le ombre dei pini ad allungarsi nel tramonto, me lo immagino, Romolo, ancora a strillare con più voce che mai:
«Lavatevi bene le mani e bucatini per tutti!»
E buon appetito!
Ma poi lo sapeva, Romolo, che il pomodoro nella pasta fu aggiunto solamente quei duemilacinquecento anni più tardi? Nell’attesa il piatto si sarebbe ben presto freddato… Non sarebbe stato meglio pensare a due spaghetti cacio e pepe, come quelli della nonna? Ecco, questo dettaglio della fondazione di Roma ancora non mi è chiaro e credo che il vero punto oscuro della faccenda stia nel fatto che Romolo e Remo, poveretti, abbandonati nella cesta lungo la riva, la nonna non la conobbero proprio e la pasta cacio e pepe a loro, orfanelli, non la cucinò nessuno mai.
Fatto sta che da quel lontano ventuno di aprile gli antichi romani cominciarono il conto degli anni, uno dopo l’altro, scrivendo in latino ab urbe condita, con l’accento sulla o, che poi vuol dire dalla fondazione della città. Anche se forse, visto il languorino che mi è venuto pensando ai bucatini, sarebbe stato meglio dire condita, con l’accento sulla i.
La fotografia
Ai giochi della XVII Olimpiade la maratona si corse tra i monumenti, lungo gli scavi dei Fori Imperiali e accanto ai palazzi storici di Roma, in uno scenario che mai si riuscì a eguagliare. Era il dieci di settembre del 1960 e alla linea di partenza si presentò un atleta etiope, in tutto equipaggiato come gli altri corridori accanto a lui, a parte i piedi, che erano scalzi e liberi come quelli di Romolo e Remo duemilasettecento anni addietro.
Fu uno spettacolo vederlo galoppare a testa alta, tagliando per primo il traguardo posto scenograficamente sotto l’arco di Costantino, con il Colosseo là dietro e il pubblico entusiasta tutto intorno. Inutile dire che quel giorno Abebe Bikila diventò un eroe. Lo puoi vedere in questa foto, in basso a destra, con la maglia numero undici sulle spalle.
Il video
Tra i romani più famosi di Roma antica è impossibile non ricordare Nerone, che fece letteralmente fuoco e fiamme, ma la sua fama bruciacchiata se l’è portata appresso fino a oggi non certo per un bel motivo. L’attore Ettore Petrolini lo prese in giro in uno dei suoi famosi pezzi, travestendosi da lui in modo piuttosto buffo e facendolo parlare in tono solenne, con tanto di commento del pubblico. Era così la tivù e il teatro di qualche anno fa, non lontani come Roma antica, ma neppure vicini come i programmi di oggi.
La pagina web
Le strade e i vicoli di Roma, le piazze e i viali, sono talmente famosi che li abbiamo visti tutti almeno un po’ anche senza esserci mai stati: alla tivù, al cinema, in una cartolina o in un libro. Ma sotto la città cosa c’è? Ti dice nulla il termine catacomba? Quanta Roma antica si nasconde sotto l’asfalto e il traffico di quella moderna? E se non riusciamo a riportarla alla luce, forse possiamo andare noi, giù al buio: basta non soffrire di claustrofobia. Se hai in programma di farti un giro in città, allora, prima dai un’occhiata alle attività sotterranee, che magari ti vien voglia di trascorrere una giornata insolita.
Ti consiglio un libro
Giovanni Nucci – E fonderai la più grande città del mondo – Feltrinelli
Da Roma – e chissà com’era, Roma, quando Roma ancora non c’era… – a Roma, che da quando è stata fondata il mondo non è più lo stesso mondo di prima. Marte, Venere, Giove e Saturno erano pianeti già allora? E quando era di là del Tevere, Enea, lo sapeva di essere a Trastevere? E a quella storia della lupa e dei due gemelli ci dobbiamo credere davvero? Dai Rutuli ai romanacci, Giovanni Nucci ci racconta i miti di questa mitica Roma, che se non è più la più grande del mondo, tra le città resta comunque la più grandiosa.
I nostri eroi
Erano sette, i re di Roma: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il superbo. Sette come i sette colli, i sette nani e le tante cose che al mondo vanno a gruppi di sette. E Falcao? Dove lo mettiamo, Falcao?
Paulo Roberto Falcao è stato uno dei più rappresentativi giocatori della Roma calcistica, quella con la maglia giallorossa e la Curva Sud a fare il tifo. Veniva dal Brasile e giocò nella capitale dall’Ottanta all’Ottantacinque, quando nel campionato italiano giocavano anche i vari Maradona, Zico e Platini. Più Paolo Rossi, Dino Zoff e tutti i campioni del mondiale dell’Ottantadue, come Bruno Conti, romanista come Falcao. Proprio a quei mondiali, nella partita Italia Brasile tre a due, Falcao segnò il goal del momentaneo 2 a 2, ma poi se ne tornò a casa e gli azzurri no.
Per la sua classe, l’eleganza, la capacità di dirigere la squadra e di coinvolgere l’intero popolo romanista, nonché per lo storico scudetto del 1983, Paulo Roberto Falcao fu nominato Ottavo re di Roma, anche se a Romolo e agli altri sei nessuno lo ha ancora fatto sapere.
C’era un tizio… anzi, un caio, tale Caio Muzio Scevola, detto il mancino, perché… perché adesso te lo spiego.
Succedeva che la città di Roma, ancora piccina, era assediata dagli etruschi del re Porsenna e quando qualcuno ti cinge d’assedio non è che la cosa sia piacevole, credi a me. Lo deve aver creduto anche quel Caio che, raccattato un pugnale e mezzo chilo di coraggio, si fece strada tra i nemici e andò a uccidere il loro sovrano. Peccato solo che sbagliò malauguratamente mira e a morire fu qualcun altro, poveretto, e la cosa – puoi capire – fu a dir poco imbarazzante.
Scevola venne tratto in arresto e portato al cospetto del re etrusco dove, ammettendo l’errore e la disattenzione, per punirsi del misfatto pose sul fuoco ardente la mano destra, colpevole dell’assassinio, che si bruciò come i piedi di Pinocchio davanti al camino. Da quel giorno divenne necessariamente mancino.
Re Porsenna, ammirato dal coraggio del nostro eroe, decise di restituirgli la libertà e lui, già che c’era, per tutta risposta gli svelò che erano trecento e più i romani desiderosi di farlo fuori e, se lui aveva sbagliato bersaglio, non sarebbe accaduto lo stesso la volta successiva. L’etrusco, preferendo non verificare la veridicità dell’informazione, tolse l’assedio e se ne tornò a casa, liberando Roma e i romani.
Bravo, amico mancino, furbi come te non sono in tanti. Complimenti sinceri, qua la mano… No, l’altra, che è meglio.
E poi l’autore di Arrivederci Roma fu un tipetto piccolino, simpatico come pochi. Si chiamava Renato Rascel e fu uno degli attori di teatro, cinema e tivù più amati di qualche decennio fa, quando le immagini erano i bianco e nero e la musica a mille colori. Rascel, che sarà anche nato a Torino, ma a parte questo era romano, romanista e romanissimo più che mai.
Non lo sapeva, Romolo, ma secondo me lo immaginava e comunque ci sperava, che nella sua città avrebbe prima o poi vissuto un attore, che senza di lui la città eterna non sarebbe stata eterna per nulla. Stiamo parlando di Alberto Sordi, il più italiano tra gli attori italiani e, tra gli italiani, il più romano di tutti. Inconfondibili le sue occhiate con quello sguardo allusivo, indimenticabili le sue interpretazioni e alcune scene, come quella dei maccheroni all’americana… E se è vero che nel film Vacanze romane per le vie di Roma c’erano Audrey Hepburn e Gregory Peck e non lui, è vero anche che la voce di Ollio, compare di Stanlio, è proprio di Albertone. E ogni volta che in tivù mi imbatto in una comica di quel dì, chiudo gli occhi e mi par di essere in Piazza Navona.