Un’intervista impossibile a Julio Cortázar

Un’intervista impossibile a Julio Cortázar

Uno degli assi portanti di questa edizione de La grande invasione, il festival organizzato da SUR a Ivrea dal 30 maggio al 2 giugno, è il ricordo di alcuni grandi maestri del passato: Dylan Thomas, Anna Maria Ortese, Marguerite Duras e Julio Cortázar, grandi maestri della parola scritta — dalla poesia, al romanzo, passando per il racconto — che se fossero ancora tra noi avrebbero compiuto il giro di un secolo proprio in questi mesi.

Ma la letteratura fa un regalo incredibile a coloro che decidono di sacrificarle la propria vita, riversandola e reinventandola nelle pagine di un libro. È la possibilità di ingannare la morte, di fermare il tempo e ridere in faccia all’oblio — almeno per un po’ — che è poi la possibilità di far riecheggiare la propria voce nel tempo, di farla arrivare fino a noi.

È per questo, non per altro, che oggi posso prendere un libro di Julio Cortázar dalla mia libreria, sedermi alla scrivania e, con un piccolo sforzo di immaginazione, vederlo seduto davanti a me, con uno zuccotto di mate in mano e una sigaretta fumante nell’altra.

È per questo che posso schiarirmi la voce, farmi coraggio e, mentre lui mi ascolta attento spegnendo la sigaretta in un portacenere a forma di Camp Nou, fargli la prima domanda, prendendomi la libertà di dargli del tu:

Non credi che la forma del racconto breve sia stata un po’ bistrattata nel Novecento?
Sì, hai ragione, è ormai tempo che nelle università si inauguri una cattedra dedicata al racconto, come esistono quelle di poesia. Che cose meravigliose vi si potrebbero insegnare! Senz’altro i primi collaboratori di un corso del genere (come alunni o professori) dovrebbero essere gli stessi autori di racconti brevi. È curioso che molti di loro non abbiano mai riflettuto sul genere in sé. Non parlo di riflessione stilistica, che non è imprescindibile, ma di quella meditazione primaria, in cui la testa e il cuore collaborano in parti uguali, che dovrebbe mostrare all’autore quanto il territorio in cui si muove sia rischioso, quanto sia complicata la sua topografia, e la responsabilità che ciò implica.

Perché il racconto gode di poca credibilità?
Il racconto, ormai, perde credibilità a causa dei racconti stessi.

Mmmh, mi sa che questa me la devi spiegare un po’ meglio…
Per ogni racconto buono, che resta in piedi come un gatto caduto dal quarto piano, ce ne sono non so quanti che o sono scene tagliate da un contesto molto più esteso (le forbici sono rappresentate dalla pigrizia dello scrittore, o dalla sua incapacità di portare avanti la narrazione), o sono meri esercizi di stile su un argomento qualsiasi, bello o brutto che sia, sempre comunque rovinati dalla mancanza di concentrazione, di «attacco».

Come ti viene l’ispirazione per un racconto?
Io, che spesso faccio incursione anche nella poesia – o almeno scrivo poesie – non sono riuscito ad avvertire, fino ad oggi, nessuna differenza nel mio stato d’animo quando faccio una cosa o l’altra. Mentre scrivo un racconto, sono sottomesso a un gioco di tensioni che non sono per niente diverse da quelle che mi intrappolano quando scrivo poesie. La differenza è soprattutto tecnica, perché i «racconti poetici» mi fanno più orrore della febbre gialla, e sto sempre molto attento che ciò che accade nei miei racconti proponga al lettore una struttura definita, una realtà data, per irreale che sia agli occhi dei lettori di quotidiani e agli esseri con-i-piedi-per-terra (cosa sono i piedi, cos’è la terra?).

Qual è la forma perfetta che deve avere un racconto?
Guarda, prendi Henry James: lui è un grande scrittore di racconti, ma i suoi racconti sono sempre figli dei suoi romanzi, sono sottomessi alla stessa elaborazione circostanziale previa, a quella tecnica di avvolgere il lettore prima di farlo arrivare al nocciolo della storia. Poi invece prendi uno come Juan José Arreola che, quando scrive El rinoceronte, gli basta la prima frase («Per dieci anni ho lottato con un rinoceronte; sono l’ex moglie del giudice McBride» che incipit perfetto!) perché uno si dimentichi di essere seduto in poltrona al secondo piano di rue Mazarine (una bella via, credimi) e che in dieci minuti lo avviseranno che il pranzo è pronto. Lo «straniamento», il passaggio all’interno del racconto è fulminante. Juan José Arreola è una formica leone, se sono le formiche leone quelle che costruiscono un imbuto nella sabbia perché le proprie vittime vi cadano dentro. Quattro parole e zac, dentro.

Quanto è difficile scrivere un bel racconto?
[Ride]. Guarda, se c’è una cosa che so, è quanto sia difficile scrivere un racconto pienamente riuscito. Pensa che, per ogni libro che pubblico non sono soddisfatto che di uno o due racconti. Gli altri, dopo molteplici tentativi, si negano a adottare quella forma forse troppo perfetta che vorremmo dargli. E poiché la forma di per sé non esiste, ma è piuttosto la giustificazione di ciò che si scrive, la prova tangibile ed estetica del fatto che valeva la pena scriverlo, se ne deduce che solo pochi racconti nascono con la giusta vitalità, con quel diritto a perdurare nella memoria che è la loro terribile forza e la loro più grande bellezza.

Scrivi racconti fantastici perché hai timore di parlare di te stesso o per scappare dalla realtà?
Io sono sempre stato un tipo discreto, e le persone estroverse mi danno fastidio, per questo mi infastidiscono gli spagnoli, come lei, se non sbaglio.

No, io sono italiano…
Ah, quand même… la verità è che in me non c’è molto di interessante, non c’è molto da mostrare né da raccontare. Non credere che cerchi di darmi un tono, o che pecchi di modestia. Ciò che scrivo è soprattutto invenzione, ed è invenzione perché non ho nulla da ricordare che valga la pena. Quindi, approfittando di un certo dono che la natura mi ha dato, invento, fabbrico, estraggo ex nihil. Persone come Miller, Hemingway, Malraux, Céline, hanno vissuto avventure personali straordinarie, e basta raccontarle nel modo giusto per assicurarsi l’ammirazione dei lettori. Io, invece, che mi rompa un braccio, visiti il Partenone o navighi lungo il Gange, sono sempre come all’interno di me stesso; i miei entusiasmi – per quanto grandi – non mi distolgono dall’estetismo o al massimo da un’ansia di carattere quasi mistico ma di qualità più che dubbia. La mia vita da giovane fu ugualmente anodina; amori opachi, violente passioni quasi sempre ingiustificate e pertanto fini- te frettolosamente, attese, ribellioni senza grandi meriti… Si rende certo conto che non è un curriculum vitae interessante.

E cosa mi dici invece dei romanzi?
La verità, la triste o bella verità, è che i romanzi mi piacciono sempre meno, l’arte romanzesca così come si pratica di questi tempi. Rayuela poi, è qualcosa di più simile a un antiromanzo, il tentativo di rompere gli schemi in cui il genere è pietrificato. Credo che il romanzo «psicologico» si sia esaurito, e che se dobbiamo continuare a scrivere cose che valgano la pena di essere lette, occorre muoversi in un’altra direzione. Il surrealismo ha marcato a suo tempo alcuni percorsi possibili, ma si è fermato alla fase pittoresca. È ovvio che ormai non possiamo prescindere dalla psicologia, dall’esplorare minuziosamente i personaggi; ma la tecnica dei Michel Butor e delle Nathalie Sarraute mi annoia profondamente. Si limitano alla psicologia esteriore, sebbene credano di andare molto più a fondo. La vera profondità di un uomo è l’uso che fa della propria libertà. Da lì si raggiungono l’azione e la visione, l’eroe e il mistico. Non voglio dire che il romanzo debba proporsi questo genere di personaggi, perché gli unici eroi e mistici interessanti sono quelli reali, non quelli inventati da uno scrittore. Credo però che la realtà quotidiana in cui viviamo non sia che il margine di una favolosa realtà che è possibile riconquistare, e che il romanzo – come la poesia, l’amore e l’azione – debba proporsi di penetrare tale realtà. Ora, il concetto fondamentale è questo: per rompere questo guscio fatto di abitudini e vita di tutti i giorni, gli strumenti letterari abituali non servono più. Pensa al linguaggio che dovette usare Rimbaud per farsi strada nella sua avventura spirituale. Pensa a certi versi delle Chimere di Nerval. Pensa ad alcuni capitoli dell’Ulisse. Come si può scrivere un romanzo quando prima occorrerebbe dis-scriversi, dis-impararsi, partire à neuf, da zero, da una condizione preadamitica, per così dire?

Non saprei, tu come fai?
Il mio problema, a oggi, è un problema di scrittura, perché gli strumenti che ho usato per scrivere i miei racconti non mi servono per ciò che vorrei fare prima di morire. E per questo molti lettori che apprezzano i miei racconti dovranno prepararsi a un’amara disillusione quando leggeranno Rayuela.

Spiegami meglio…
Un racconto è una struttura, ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere, non so come, un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, un serpente che si morde la coda; e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare, se ne ho la forza, sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema. Insomma, rinuncio a un mondo estetico per tentare di penetrare un mondo poetico. Mi faccio solo illusioni, finirò per scrivere un libro o vari libri che saranno sempre inesorabilmente miei, vale a dire con il mio tono, il mio stile, le mie invenzioni? Forse sì. Ma avrò giocato lealmente, e ciò che ne verrà fuori sarà così perché non sono in grado di fare altrimenti. Se oggi continuassi a scrivere racconti fantastici mi sentirei un perfetto truffatore; modestia a parte, mi viene già troppo facile, je tiens le système, come diceva Rimbaud. Per questo Il persecutore è qualcosa di diverso. Già lì stavo cercando un’altra porta. Ma è tutto così oscuro, e io faccio così fatica a spezzare abitudini tanto radicate, una tale comodità fisica e mentale, tanto mate alle quattro e cinema alle nove…

La voce di Julio Cortázar è tratta dal volume Carta carbone, Edizioni SUR, 2013. 

L’ultimo libro di Julio Cortázar pubblicato da Edizioni SUR è Un certo Lucas, nel maggio 2014.

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