Il Qatar è, con tutta probabilità, il Paese da cui partono i finanziamenti più consistenti per l’Isis, il gruppo terrorista che ha conquistato terreno in Siria e Iraq, proclamando il Califfato dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Dei due miliardi di dollari di cui il gruppo disporrebbe, la maggior parte arriverebbe dal piccolo emirato confinante con l’Arabia Saudita. Un articolo de La Stampa ha ricostruito il meccanismo, citando fonti del Tesoro Usa: «donatori del Qatar raccolgono fondi per gruppi estremisti in Siria, a cominciare da Isis e al-Nusra» con il risultato di «aggravare la situazione esistente». Uno studio del “Washington Institute per il Vicino Oriente” ha calcolato in «centinaia di milioni di dollari i versamenti compiuti da facoltosi uomini d’affari in Qatar e Kuwait a favore di al-Nusra e Isis», che in precedenza era nota come «Al Qaeda in Iraq». Ciò che accomuna questi «donatori», ha spiegato Maurizio Molinari sulla Stampa, è la volontà di finanziare gruppi fondamentalisti sunniti impegnati a combattere con ogni mezzo il nemico sciita, ovvero tutti gli alleati, reali o potenziali, dell’Iran, dal regime di Bashar Assad in Siria agli Hezbollah in Libano fino agli sciiti in Iraq. Riproponiamo la nostra analisi sulla politica del Qatar e sulla crescita della sua influenza nella regione.
Bastano i soldi (tanti soldi) per comprare influenza geopolitica e prestigio globale? Pare di sì. Ci è riuscito il Qatar: una nazione desertica di neanche due milioni di persone, che a suon di petrodollari si è trasformata in una potenza regionale. Capace di aggiudicarsi i Mondiali di calcio del 2022, e di tener testa pure all’Arabia Saudita (che di abitanti ne ha 30 milioni). Certo, avere enormi giacimenti di gas e petrolio aiuta. Ma è anche merito dell’ambiziosa famiglia reale, gli Al Thani. Una stirpe di emiri al potere dalla prima metà del XIX secolo, quando la loro tribù d’origine, la Banu Tamim, lasciò l’attuale Arabia Saudita per stabilirsi nella penisola del Qatar.
Anche se il Qatar è una monarchia assoluta, gli Al Thani se la cavano abbastanza bene nel coniugare autoritarismo e riforme. L’esempio per eccellenza è Hamad bin Khalifa Al Thani, che ha governato l’emirato dal 1995 al 2013, quando ha passato il testimone al figlio, il trentatreenne Tamim. «Hamad ha deliberatamente modernizzato il Qatar per rafforzare la posizione della famiglia reale, allargare le basi economiche del Paese, e garantire la sicurezza dei sudditi — spiega Matthew Gray, docente presso l’Australian National University nonché autore de Qatar: Politics and the challenges of development (Lynne Rienner) — Il tutto attraverso un misto di politiche economiche dirigiste, una politica estera assai attiva, l’uso attento delle entrate derivanti dall’industria degli idrocarburi».
Il Qatar non è il solito regno del Golfo tutto petrolio e opulenza. «Il Paese è molto più globalizzato e dinamico di quanto si pensi – sottolinea Gray, che però aggiunge – È pur vero che il Qatar si regge ancora sul contratto sociale tipico di molti Paesi petroliferi: lo Stato si prende economicamente cura dei cittadini, e questi in cambio accettano il potere politico della famiglia reale. Il risultato è che i governanti, e quindi per estensione lo Stato, sono molto autonomi dalla società».
Di sicuro l’emirato, che vanta un Pil di oltre 200 miliardi di dollari, è un Paese stabile. Molto stabile. Al resto del mondo non è noto per i problemi interni, ma per il reddito stratosferico dei suoi cittadini (quasi 100mila dollari pro capite), e soprattutto per la sua politica estera spregiudicata: un mix di soldi, astuzia e soft power, un cocktail micidiale che avrebbe mandato in estasi Niccolò Machiavelli.
Doha ha sostenuto i ribelli in Libia e Siria. Allo stesso tempo è la casa di Al Jazeera, il canale TV più influente del mondo arabo. In Qatar c’è un’enorme base militare a stelle e strisce, ma anche il nuovo Museo arabo di arte moderna. Potenza di un portafogli gonfio. «Noi abbiamo i soldi. – diceva nel 2009, con una certa spocchia, Ahmad al-Sayed, oggi Ceo del fondo sovrano del Qatar – Cash is king». Alla ricerca del suo posto al sole, l’emirato riesce a muovere molti fili. Troppi, secondo alcuni.
I sauditi, ad esempio, sono ai ferri corti con il Qatar. Ad aprile Riyad, imitata da Kuwait ed Emirati arabi uniti, ha richiamato i suoi ambasciatori dal Qatar. L’accusa? Doha supporterebbe “organizzazioni terroristiche” (i Fratelli musulmani) e reti televisive “ostili” (Al Jazeera). Bisogna però ricordare che né la Ue, né il dipartimento di Stato considerano i Fratelli musulmani come terroristi islamisti. E che l’operato di Al Jazeera, per quanto a volte discutibile, è più libero e indipendente di quello delle reti televisive saudite.
Come spiega a Linkiesta Lina Khatib, a capo del Carnegie Middle east center di Beirut, «con questa mossa i sauditi hanno voluto rimproverare in maniera aperta e plateale il Qatar. A loro parere l’emirato si era spinto troppo oltre nel suo sostegno ai Fratelli. Un sostegno che, dopo la Primavera araba, era motivato dal desiderio di avere influenza nei Paesi arabi in fase di transizione avendo degli alleati al potere».
Aparere della Khatib sono spesso le ambizioni economiche e finanziarie (i soldi, cioè) a guidare la proteiforme politica estera di Doha: non a caso i potenziali alleati tendono ad avere il profilo di possibili partner commerciali («anche se non sempre la politica estera e quella economica coincidono»). Proprio per questo motivo la Khatib non crede che il Qatar abbandonerà tanto facilmente i suoi sogni di potere regionale, malgrado il tracollo dei Fratelli musulmani in Egitto e il declino di Al Nahda in Tunisia. «Doha non abbandonerà i suoi alleati islamisti. Però cercherà di stabilire buone relazioni con i nuovi leader tunisini ed egiziani, sia a livello politico che economico, per mantenere influenza».
Della stessa opinione è anche David Roberts, del King’s college di Londra. «Il Qatar ha investito troppo nella relazione con i Fratelli musulmani, e con il tempo essa tornerà di nuovo utile. Tra l’altro il Qatar è l’unico Paese del Golfo ad aver appoggiato i Fratelli. L’ha fatto per legami storici e, cosa ben più importante, perché può permettersi di farlo, non dovendo affrontare opposizione interna di nessun tipo, a differenza dei sauditi».
Secondo Gray le ragioni dell’appoggio qatariota ai Fratelli musulmani sono anche altre. E hanno a che fare con la tanto apprezzata stabilità interna dell’emirato. «In Qatar si teme che il Paese stia cambiando troppo velocemente, si stia modernizzando troppo in fretta, e che i valori e le strutture sociali siano minacciati. La pensano così persino alcuni membri della dinastia Al Thani, quelli più conservatori. Queste tensioni devono essere gestite con molta attenzione dall’emiro, il riformista Tamim, proprio come aveva fatto suo padre Hamad prima di lui».
Non a caso nel suo ultimo discorso in qualità di emiro, Hamad ha esortato il popolo a salvaguardare l’identità nazionale. «Ho fiducia che voi siate pienamente consapevoli della vostra lealtà e della vostra identità araba e musulmana. Vi incoraggio a preservare i nostri valori tradizionali e culturali, derivanti dalla nostra religione, dall’identità araba e soprattutto dalla nostra umanità; perché noi crediamo che il mondo arabo sia un unico corpo; un’unica struttura coerente; esso prospera se tutte le parti prosperano».
Sempre a parere di Gray, la grande paura di molti qatarioti è di trasformarsi… in una nuova Dubai. «Sono tanti, nell’emirato, a pensare che Dubai abbia “venduto l’anima” per ottenere ricchezze e diversificare l’economia, subendo un’eccessiva influenza culturale straniera. A riguardo bisogna anche ricordare che la popolazione del Paese è costituita da circa 300mila qatarioti e un milione e passa di stranieri. – dice lo studioso – Secondo i più tradizionalisti, per esempio, l’aumento dei tassi di divorzio è un segnale delle influenze negative del mondo moderno, dell’occidentalizzazione».
Sostenere gli islamisti, conclude Gray, «significa, per la famiglia reale, riflettere un conservatorismo religioso e sociale diffuso. Allo stesso tempo, è un modo per creare consensi nel mondo arabo, visto che molti altri governi dell’area sono ben più ostili verso gli islamisti, e così sembrano soddisfare le richieste dell’Occidente». Insomma, la politica pro-islamisti di Doha ha tutta l’aria di essere una vera e propria strategia di legittimazione nazionale e regionale. Che probabilmente funziona, visto che il Qatar non è stato minimamente investito dalla Primavera araba.
Così come sembra stia funzionando la politica economica dell’emirato. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, nel 2013 il Pil qatariota è cresciuto di più del 6%: un dato superiore a quello dell’Arabia saudita (3,8%) e degli Emirati arabi uniti (4,8%), e molto migliore della media regionale (2%); quest’anno la crescita dovrebbe invece attestarsi poco sotto il 6% (comunque uno dei dati migliori dell’area), mentre nel 2015 dovrebbe superare il 7 per cento.
Naturalmente gas e petrolio svolgono un ruolo fondamentale. In base alle valutazioni della Qatar national bank (Qnb) per l’anno fiscale 2012-2013, i guadagni derivanti dal settore degli idrocarburi hanno rappresentato circa il 60% delle entrate totali dello Stato qatariota nei passati cinque anni. Sempre secondo la Qnb, nel 2012 gas e petrolio hanno generato quasi il 60% del Pil.
In particolare, il Qatar è il quarto produttore mondiale di gas naturale secco dopo Stati Uniti, Russia e Iran. Questo significa soldi. Parecchi soldi. Si pensi soltanto alla Qatar Investment Authority (Qia), il fondo sovrano dell’emirato: vanta asset valutati tra i 100 e i 200 miliardi di dollari, ed è presieduto da Tamim in persona. Anche se non è cospicuo come l’Adia di Abu Dhabi (oltre 700 miliardi di dollari) o il Kia del Kuwait (400 miliardi di dollari), il Qia è famoso per il suo attivismo. A caccia di buoni affari (colossi come Barclays e Volkswagen ne sanno qualcosa), il suo nome è in grado di far venire la bava alla bocca agli analisti finanziari di mezzo mondo.
D’altra parte il Qia non è l’unico attore finanziario qatariota di peso globale. Basti pensare che il Paramount services holding, fondo di investimento guidato dall’ex primo ministro (e ministro degli esteri) Hamad bin Jassim, dovrebbe presto entrare nel capitale di Deutsche Bank, sancta sanctorum del capitalismo germanico.
Il rischio del “Male olandese”, ossia dell’eccessiva dipendenza dallo sfruttamento delle risorse naturali, è però sempre in agguato. I qatarioti lo sanno bene. «L’emirato è molto legato all’industria del gas naturale, e nessuno sa davvero quale sarà il futuro di questo settore. – dice a Linkiesta Gray – Il Qatar e molti altri esportatori di gas sono nervosi a causa dello sviluppo del settore del gas non-convenzionale, e inoltre parecchi dei contratti stipulati da Doha sono a breve termine, quindi un surplus nell’offerta mondiale di gas potrebbe danneggiare l’economia qatariota. Ancora, per quanto sia stata impressionante la crescita del Paesenei tardi anni Novanta, si deve fare molto di più per diversificare l’economia. Le rendite del gas e del petrolio continuano a sostenere molte altre parti dell’economia».
Naturalmente trasformare un’economia non è facile. Doha però ci sa provando. Lo spiega a Linkiesta Guido De Sanctis, ambasciatore dell’Italia a Doha: «È stata lanciata una politica di diversificazione, e oggi il petrolchimico e settori annessi hanno buoni livelli di produzione. Esistono piani di ulteriore diversificazione, ma ogni sviluppo industriale richiede manodopera, e questo per il Qatar vuol dire, essenzialmente, assumere personale dall’estero: si rischia di innescare una spirale di sviluppo in forza delle quale ad aumenti di produzione corrispondono accresciute esigenze della comunità migrante, e non è detto che questo rappresenti la soluzione più valida».
Secondo quanto riferisce il diplomatico, obiettivo dei governanti qatarioti «è trasformare l’economia nazionale da una basata sulle materie prime a un’economia della conoscenza, ad esempio sviluppando settori ad alto contenuto tecnologico. In tale contesto, è possibile dire che le aziende italiane con buone speranze di successo in Qatar potranno essere quelle che si occupano di energie rinnovabili, di trattamento-dati, di automazione dei processi: in una parola, quelle che hanno nell’innovazione il loro obiettivo principale».
Per modernizzare e diversificare l’economia è cruciale attrarre investimenti stranieri, i famosi Foreign direct investment (Fdi). «La politica dell’emirato a riguardo si fonda sulla costituzione di partenariati. In un contesto dinamico come questo, sono presenti molte aziende italiane e straniere, che svolgono importanti lavori, ad esempio nel settore delle infrastrutture. – nota De Sanctis – La cosa a cui tengono di più le autorità del Qatar, però, è trovare veri partner con i quali crescere insieme. L’investimento dall’estero, dunque, è visto come creazione di joint-venture, nel rispetto della legge sugli investimenti stranieri che prevede l’attribuzione della quota di maggioranza all’impresa locale».
Se gli imprenditori occidentali o est-asiatici sono trattati con i guanti bianchi, lo stesso non può dirsi per la forza-lavoro straniera impiegata nei cantieri, nelle case o nella ristorazione. Si tratta di oltre un milione di persone, specialmente da India, Pakistan, Sri Lanka, Filippine, Nepal, Bangladesh. Come riporta Human Rights Watch, molti di loro denunciano gravi violazioni delle leggi sul lavoro. Non hanno diritto a scioperare o a creare un sindacato, sono spesso sottopagati e indotti a firmare contratti svantaggiosi. Secondo l’International Trade union confederation, nonostante tutti i suoi soldi il Qatar è uno dei peggiori Paesi al mondo dove lavorare, al livello di Paesi ben più poveri come il Laos o la Nigeria.
Non tutti i lavoratori-stranieri però sono scontenti. Lo racconta a Linkiesta la danese Trine Ljungstrom, sposata con un professionista dell’industria petrolifera, e residente in Qatar da otto anni. Autrice di un libro sulla sua esperienza, la Ljungstrom racconta che «tutte le persone con cui ho parlato sono molto contente di vivere in Qatar. Hanno vite migliori qui di quelle che avevano in patria. E possono provvedere alle famiglie rimaste a casa, perché hanno buoni lavori qui».
La Ljungstrom dichiara di non aver mai subito discriminazioni in quanto donna occidentale. Osserva però che «il governo qui sta portando avanti una cosa chiamata “qatarizzazione”. Lo scopo è preparare i cittadini dell’emirato a guidare il Paesesenza il sostegno degli esperti stranieri dal cui aiuto sono oggi così dipendenti. Perciò alcuni annunci di lavoro sono soltanto per cittadini del Qatar. O addirittura per uomini o donne del Qatar. Una discriminazione del genere non sarebbe tollerata in Danimarca, o nel resto d’Europa. Ma si tratta di un aspetto del processo per trasformare il Qatar in un Paese indipendente».
Il numero di lavoratori-stranieri è destinato ad aumentare in maniera significativa a causa dei Mondiali di calcio (“un errore assegnarli al Qatar”, secondo un recente commento del presidente della Fifa Joseph Blatter). La costruzione degli stadi e infrastrutture varie richiede braccia. E non soltanto quelle, sembra. Secondo quanto denuncia il governo indiano, oltre 500 suoi cittadini sarebbero morti dal gennaio 2012 al gennaio 2014. 185, invece, i lavoratori nepalesi morti nel 2013. I soldi possono forse comprare prestigio e influenza geopolitica. Però non fanno resuscitare i morti.