Mi sono preso qualche giorno prima di scrivere quello che pensavo (e che penso) di Stalin + Bianca, il primo libro edito da Tunué nella collana Romanzi, curata da Vanni Santoni. Mi sono preso qualche giorno perché dovevo; perché il racconto mi aveva coinvolto talmente tanto che non sarei stato obiettivo. Ho aspettato una settimana. Quindi mi sono seduto, Stalin + Bianca a portata di mano, e ho cominciato a scrivere.
La prima cosa che vi posso dire di Iacopo Barison, prima ancora di parlarvi del suo libro, è che è un giovanissimo scrittore che seguo da sempre – e da sempre, in questo caso, significa “da almeno un anno”, cioè da quando l’ho scoperto. Ho letto tutte le interviste che ha firmato per il blog minimaetmoralia, e ogni volta ne sono rimasto piacevolmente colpito. Perché non erano interviste nel vero e proprio senso della parola. Erano più chiacchierate. Di quelle belle, amichevoli, che ti dicono qualcosa di più della persona e non solo – se c’è – dell’opera. Un esercizio umano, oltre che di stile. E per questo sono stato contento nel sapere che sarebbe uscito un romanzo scritto da lui, per la Tunué, casa editrice specializzata in fumetti e graphic novel e che solo quest’anno, proprio con Iacopo, ha deciso di fare il grande passo e di aprire una collana di sola narrativa.
La storia di Stalin + Bianca è la storia di due ragazzi come tanti. Uno che soffre di crisi di rabbia da cui difficilmente riesce a sfuggire, l’altra che, cieca, è intenzionata comunque a provarci e, cosa ancora più importante, a credere. Tra i due è Bianca a fare da guida a Stalin. E la cosa è paradossale non perché Bianca sia una ragazza o perché dia un’idea di fragilità costante — più fisica che mentale — ma perché, appunto, è cieca. Senza di lei, Stalin andrebbe in pezzi. Stalin, che sogna di fare il regista. Stalin che ha due baffoni grandi, enormi, e che per questo s’è meritato il soprannome del “baffone”.
Il racconto di Iacopo Barison è il racconto del viaggio di questi due ragazzi, un viaggio che si snoda lungo le strade desolate di un paese prossimo al collasso, in un futuro non tanto lontano, e che ricorda per la sua atmosfera il romanzo Premio Pulitzer di Cormac McCarthy. Qui non ci sono né cannibali, né terremoti. Le regole della società civile, per così dire, resistono ancora. Pure se tra tossici, depressione cronica e ribelli silenziosi. Ma c’è una consapevolezza diffusa di una fine raggiunta e superata, e di un nuovo inizio che va cercato e non solo aspettato.
Qualcuno potrebbe pensare che alla fine Stalin e Bianca cambino. Che il viaggio sia il mezzo utile per la loro evoluzione (o il loro annientamento totale) come esseri umani. E invece tutto, a cominciare dai due protagonisti, rimane lo stesso. Un serpente che si morde la coda e che ci dice che tutto sommato le persone non sono tenute a cambiare. Le persone sono solo persone, con le loro paure, le loro ansie e le loro passioni. E in un mondo come quello di Stalin e di Bianca conta solamente una cosa: vivere. Come è un dettaglio – anche questo.
Lo stile di Iacopo Barison è semplice, per nulla macchinoso. Dice le cose come stanno. Nelle sue descrizioni è impossibile perdersi. In alcuni momenti, il tono del racconto diventa quasi musicale, anche se è di filosofia o di vecchio cinema che si sta parlando. La sua storia è una storia tutto sommato lineare. Un dialogo che diventa monologo, e un monologo che si fa confessione interiore. Il punto di vista del lettore è quello di Stalin, tutto al presente.
Il sottotesto di Stalin + Bianca ci racconta, poi, un’alta storia: quella dell’arte e del (finto) intellettualismo di cui, talvolta, ci armiamo. E che lascia ben poco spazio alla curiosità e alla (vera) voglia di sapere. Il mondo che Iacopo Barison descrive è un mondo senza arcobaleni. Quindi, ragionando per simbolismi, senza speranza e senza futuro. Non c’è una risposta finale – un «non vi preoccupate, andrà tutto bene». Il lettore non viene rassicurato, ma messo sul chi vive. Torturato nella sua sensibilità (se c’è). Perché la storia di Stalin + Bianca è una storia possibile. Non vera, ma verosimile. Non già sentita, ma in qualche modo familiare. Non viene fatto nessun nome (di città, di strada, di continente, di persone), mai. Solo quello dei due protagonisti. Possiamo essere nel nord America come in Europa, tra vecchie capitali come tra le più nuove. Quello che resta, alla fine, è una sensazione: opprimente, terribile, fuggevole. E una domanda: nel nostro futuro ci saranno ancora gli arcobaleni?