Ankara, la pedina che sfugge agli Usa contro l’Isis

Ankara, la pedina che sfugge agli Usa contro l’Isis

Ankara non parteciperà alle operazioni militari, né concederà l’uso della base di Incirlik per i raid americani contro i miliziani jihadisti. Al massimo darà assistenza umanitaria e logistica. È l’ultima novità che emerge dai tentativi fatti dall’amministrazione Obama per chiedere il supporto e l’aiuto delle potenze regionali nella lotta al califfato proclamato dallo Stato islamico al confine tra Iraq e Siria. Una novità non da poco. Perché in questa campagna la Turchia è giocatore chiave.  

La ragione che spinge il Pesidente turco Erdogan a dire di no a un aiuto militare agli Stati Uniti è piuttosto semplice: dopo aver contrastato Damasco per anni, la Turchia si troverebbe a combattere contro gli stessi nemici di Assad, gli jihadisti, appunto, con il rischio implicito di legittimare il Presidente siriano

Resta ora da capire perché l’aiuto della Turchia (nonostante siano già dieci i Paesi arabi che hanno offerto il loro sostegno a Washington) è così importante per gli Stati Uniti. Occorre guardare alla situazione che si è andata sviluppando lungo le sue frontiere meridionali. La Turchia confina con la Siria per 910 km e con l’Iraq per 384. Ed è proprio su questo lungo confine che si sta giocando una partita fondamentale.

Torniamo indietro di un paio di anni, quando le manifestazioni in Siria contro il regime di Assad si trasformarono in una guerra civile che conta, a oggi, più di 200.000 morti e oltre quattro milioni e mezzo di rifugiati (di cui circa un quarto emigrati in Turchia). 

All’epoca il governo di Erdogan, al potere dal 2003, era nel pieno di una fase transitoria studiata per fare uscire la Turchia dall’isolazionismo che l’aveva contraddistinta fino ad allora. Come ha scritto Filippo Cicciù su Limes, l’allora ministro degli esteri Davutoğlu (ora neo-nominato Primo Ministro da Erdogan) «non ha mai voluto rincorrere o appoggiarsi esclusivamente all’egemonia occidentale ma ha cercato di portare Ankara verso un internazionalismo multilaterale. Il professore ha cercato di definire una nuova area d’influenza per la Turchia e nel farlo ha guardato alla rete che esisteva all’epoca dell’Impero Ottomano, quindi nella direzione dei Balcani ma soprattutto del Medio Oriente».

Questo riavvicinamento al mondo sunnita medio-orientale non è solo una pura scelta legata a logiche di relazioni internazionali, è anche figlio del nuovo establishment conservatore-islamista salito al potere con Erdogan. Quando nel 2011 le primavere arabe esplosero in tutto il Medio Oriente, Ankara vide un’occasione per ampliare la sua sfera di interessi nella regione. Scrive Sergio Romano sul Corriere: «Erdogan e Davutoglu hanno creduto che la Turchia, sostenendo le rivolte arabe, avrebbe potuto prenderne la guida. Nel settembre di quell’anno Erdogan corse al Cairo, dove fu accolto trionfalmente. Attratta da questa nuova prospettiva, la Turchia ha sostenuto la Fratellanza musulmana e il governo di Mohammed Morsi, ha abbandonato il presidente siriano Bashar Al Assad, con cui aveva avuto eccellenti rapporti, è diventata la retrovia della guerra siriana e l’inevitabile complice delle sue componenti più radicali».

La Turchia, insomma, mentre da una parte manteneva il ruolo di storico alleato occidentale, membro della Nato e candidato all’ingresso nell’Unione Europea, dall’altra si riconnetteva all’asse arabo-sunnita e alla sua rivalità con l’asse iraniano-sciita. Interpretando questo suo nuovo ruolo a fondo, Erdogan ha sostenuto apertamente l’opposizione siriana fin dall’inizio della guerra civile con Assad.

Karen Leigh, di Foreign Affairs, sostiene che: «Il Primo Ministro turco e il suo governo hanno supportato l’intero spettro dei gruppi che combattevano per il sollevamento di Assad, dall’opposizione moderata alle fazioni estremiste come al-Nusra e l’Isis, che ora sta marciando verso l’Iraq». È un punto di vista molto radicale e senza sfumature, che molti analisti non condividono. Un’opinione più moderata e sicuramente più flessibile è quella del professor Gianluca Pastori, della facoltà di scienze politiche della Cattolica di Milano, che a Linkiesta spiega: «La Turchia ha avuto sicuramente un ruolo nel favorire l’opposizione a Bashar Assad, nel suo insieme. Non credo, tuttavia, che nel caso delle fazioni più radicali sia stata una scelta consapevole di finanziamento. L’errore è avere contribuito alla creazione di un ambiente favorevole all’emergere anche di questi movimenti».

Quello che possiamo dire con certezza, è che circa a partire dai primi mesi del 2014 la Turchia si è resa conto che la scena siriana stava cambiando in maniera imprevedibile. Un conto è appoggiare dei gruppi che combattono un tuo avversario (Assad), un altro è avere ai tuoi confini una fazione armata (l’Isis) che si pone come obiettivo la creazione di uno Stato indipendente. L’Isis rappresentava una variabile fastidiosa anche per la Turchia proprio per il ruolo di disturbo che stava assumendo negli equilibri regionali. Quando a giugno le milizie di al Baghdadi sono entrate a Mosul prendendo in ostaggio 49 cittadini turchi tra cui il console della città, Ankara aveva già da tempo condannato l’Isis e le formazioni radicali come al Nusra (affiliata ad al Qaeda).

La conseguenza più scottante della politica turca nei confronti della Siria è l’aver creato un confine difficilmente controllabile. Da una parte abbiamo l’entrata di combattenti stranieri, i foreign fighters, che convergono in Turchia (ma non solo) per entrare in Siria e Iraq e unirsi all’Isis. Dall’altra c’è la questione del contrabbando di petrolio, che l’Isis estrae dai pozzi siriani e iracheni e rivende a prezzi ribassati oltre confine. Secondo quando riportato da Al Monitor, l’Isis ha venduto in Turchia petrolio per 800 milioni di dollari. Per quanto riguarda la questione del greggio e le entrate economiche del califfato riportiamo a questo articolo e a questo report di Reuters.

«La Turchia sostiene di avere un controllo molto forte sui propri confini meridionali. Il problema è in realtà quanto forte possa essere questo controllo. Più che una questione di volontà e proprio una questione di fattibilità tecnica nel controllare un confine così orograficamente complesso e poroso» spiega il professor Pastori.

La frontiera turca rappresenta per l’Isis il canale principale di scambio con il resto del mondo, e uno degli obiettivi della strategia americana è quello di isolare lo Stato Islamico. Per questo motivo oggi l’America ha così tanto bisogno della Turchia. Fonti dell’Hurryet Daily News, un importante quotidiano della regione, fanno sapere che: «La Turchia non è propensa a prendere parte in nessuna attiva operazione militare prossimamente. Ma Incirlik (Base Nato Turca vicino al confine siriano, Ndr) è disponibile per uso umanitario e operazioni logistiche contro l’Isis» e che «Gli americani non hanno chiesto l’uso operativo di Incirlik. Abbiamo spiegato la nostra posizione e loro simpatizzano. Dobbiamo agire con cautela per via degli ostaggi turchi nelle mani dell’Isil». I turchi rapiti a Mosul rappresentano sicuramente un ostacolo, ma le problematiche nella cooperazione tra Washington e Ankara sono più profonde. Ancora Pastori: «In questo momento non credo che il rapporto con la Turchia sia abbastanza buono da permettere agli Stati Uniti di chiedere troppo. Nel 2003 la Turchia rifiutò il passaggio di truppe militari statunitensi sul suo territorio, e soprattutto rifiutò l’uso delle basi aeree, che erano quelle che gli Stati Uniti chiedevano, in particolare quella di Incirlik. Non credo che oggi come oggi si possa pensare a una simile scelta da parte turca. Da un altro punto di vista penso che sarebbe un’ingenuità dipendere troppo da Erdogan. Sono convinto che gli Usa preferiscano usare altre vie. Sarebbe un’ingenuità perché in questo momento il governo turco è pesantemente contestato e per Obama rappresenterebbe tutto sommato un ulteriore piegarsi a rapporti con un governo che comunque non può vantare le credenziali di democraticità che gli Stati Uniti chiedono».

Per adesso i punti concordati con Ankara sarebbero l’uso di Incirlik e altre basi militari turche per scopi umanitari e logistici, l’apertura dello spazio aereo turco per voli umanitatari e logistici per supportare combattimenti anti-Isil in Iraq (ma non voli armati, droni inclusi) e l’applicazione di misure straordinarie per il controllo delle frontiere

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