Domani il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sarà sentito dai Pm di Palermo sulla presunta trattativa Stato-Mafia degli anni ’92-’94. Il faccia a faccia con gli inquirenti scatta dopo le polemiche degli ultimi anni tra il Quirinale e la procura di Palermo, cominciati con l’intercettazione da parte dei magistrati palermitani delle telefonate tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino, successivamente distrutte, in cui l’ex ministro dell’Interno chiedeva al capo dello Stato l’intercessione per un eventuale “coordinamento” tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta che indagavano sulla trattativa.
E sul tema “cosa nostra” il leader del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, ha lanciato domenica la sua ultima provocazione durante un comizio a Palermo. Secondo Grillo: «La mafia aveva una sua morale ma è stata corrotta dalla finanza, dai soldi, dalle multi-nazionali» e «tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è nessuna differenza».
Non è la prima volta che il comico dei 5 stelle usa l’argomento per attaccare i vari pezzi della società contro cui combatte le sue battaglie: il 30 aprile 2012 Grillo aveva attaccato lo Stato e le dure restrizioni economiche promosse dal governo Monti dicendo che «La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la propria vittima». Con queste parole il leader dei 5 stelle , accusava il governo della crisi economica e dei provvedimenti presi per fronteggiarla.
Ma non sono solo le sparate e le provocazioni sulla mafia a fare parte della storia politica italiana: ci sono anche gaffe e uscite fuori luogo, oltre a una lunga tradizione di negazionismo stile “la mafia non esiste”.
Un caso recente di cattivo tempismo è quello del sindaco del comune di Brescello (il paese di Peppone e don Camillo), in provincia di Reggio Emilia, che in un’intervista aveva definito «educato, gentile e composto» il boss della ‘ndrangheta Francesco Grande Aracri , poi condannato per mafia e ritenuto dagli inquirenti al vertice di un clan calabrese.
Il 23 ottobre 2013 la neoeletta presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, era caduta in un gioco di parole traditore, suscitando un certo divertimento legato proprio alla carica appena ricoperta: «Le finalità della Commissione sono quelle di combattere la lotta alla mafia…».
Questa della Bindi non è altro che un’uscita sfortunata, un ingenuo errore d’italiano. Chi invece ha tirato fuori più volte l’argomento intenzionalmente, è il grande protagonista della scena pubblica italiana degli ultimi vent’anni: Silvio Berlusconi. Nel novembre 2009, l’allora premier se l’era presa con chi faceva una brutta pubblicità all’immagine dell’Italia «Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia che vanno in giro in tutto il mondo a farci fare così bella figura, giuro li strozzo».
L’uscita era stata duramente criticata, e all’epoca molti avevano contestato al premier, tra le altre cose, che erano state proprio le sue reti a fare fiction sulla mafia. L’approccio di Berlusconi è sempre stato un po’ quello di minimizzare la forza e il potere di Cosa nostra, riducendolo a un problema minore rispetto a quelli che più gli stavano a cuore. Durante la campagna elettorale delle elezioni politiche 2013 (violando il silenzio elettorale), Berlusconi aveva attaccato la magistratura, accusandola di essere peggio della mafia. «Continuano con i processi, che sono stati ripresi da tutti i giornali stranieri, dove la magistratura è una cosa seria, mentre da noi è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa».
L’uscita più recente riguarda l’amico Marcello Dell’Utri, fuggito in Libano in attesa della sentenza della Corte di Cassazione, poi condannato ed estradato. Questa primavera il leader di Forza Italia ha espresso solidarietà nei confronti dell’Utri: «Una persona perbenissimo, torturato da 20 anni da un’accusa assurda che deriva da un reato non previsto dai codici, un’invenzione: concorso esterno in associazione mafiosa».
Molto tempo prima, nell’autunno del ’97, lo stesso Dell’Utri aveva rilasciato, durante un’intervista con Piero Chiambretti, una dichiarazione a dir poco anacronistica: «No, non esiste la mafia. La mafia è un modo d’essere, di pensare. È una cultura che non è la mia».
Ma possiamo andare ancora più indietro nel tempo. Per esempio al 1991, quando un giovane Salvatore Cuffaro, in diretta dal teatro Biondo di Palermo al Maurizio Costanzo Show, si scagliava contro la magistratura e i giornalisti. Cuffaro, davanti a Giovanni Falcone presente in studio, accusava i giudici di aver dato credito ai pentiti di mafia che “mettono a repentaglio e delegittimano la classe dirigente siciliana” e si scagliava contro quello che definiva “giornalismo mafioso”.
Lo stesso Cuffaro, diventato in seguito presidente della Regione Sicilia dal 2001 al 2008, è stato condannato a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Da gennaio 2011 sta scontando la pena nel carcere romano di Rebibbia.
Se al Sud c’è voluto del tempo per rendere palese e inconfutabile la presenza di Cosa nostra, per realizzare che anche al Nord c’era un problema di mafia c’è voluto molto più tempo. Ancora nel 2009 il sindaco di Milano Letizia Moratti, ospite della trasmissione Annozero condotta da Michele Santoro, sosteneva che l’immagine data della capitale economica, in un servizio in cui venivano descritti gli affari mafiosi nella città, non rappresentava la realtà milanese. Il sindaco si opponeva a chi, come Di Pietro, denunciava le infiltrazioni criminali in Lombardia
Venti anni prima era stato un suo predecessore, il sindaco Paolo Pillitteri, a pronunciare la frase fatale : «A Milano la mafia non esiste». Pillitteri cercava di minimizzare il potere acquisito dalle organizzazioni mafiose nel capoluogo lombardo. “Erano i tempi dell’inchiesta Duomo Connection e il sindaco, cognato di Craxi, era preoccupato di perdere il potere per colpa di quella indagine-battistrada, che stava comprovando i favoritismi concessi dal suo assessore socialista all’urbanistica (poi condannato per questo abuso d’ufficio) a una speculazione edilizia del clan Carollo, cioè targata Cosa Nostra. Quella smentita politica fu clamorosamente contraddetta dai fatti. A partire dal ’92 un’ondata di pentiti, impensabile prima delle stragi che uccisero i giudici Falcone e Borsellino, consentì ai magistrati di Milano di arrestare e condannare più di duemila accusati di associazione mafiosa.”. (L’Espresso)
Quando si parla di negazionismo riferito alla mafia non si può non parlare di Democrazia Cristiana e di Giulio Andreotti. Il partito al potere in Italia dal dopoguerra fino a tangentopoli ha sempre minimizzato il problema mafia e il suo potere effettivo. Il caso più famoso (che è anche il più agghiacciante) risale a un commento dell’allora presidente della commissione Esteri Andreotti sul settimanale L’Europeo, a proposito della nomina del generale Dalla Chiesa a prefetto di Palermo: «Ora il generale è nominato prefetto di Palermo, con una chiara indicazione di volontà “antimafia”. Molto bene, ma poiché l’allarme criminale viene dalla Calabria e dalla Campania, può venire il sospetto di una sfasatura di tempi e di luoghi. Comunque, buon lavoro».
Il 3 settembre dello stesso anno, il 1982, Dalla Chiesa viene assassinato a Palermo.