Il governo libanese ha ristretto in maniera significativa l’accesso agli immigrati siriani nel Paese, garantendolo esclusivamente a chi può dimostrare seri e pressanti motivi umanitari. Secondo l’Unhcr (United nations high commissioner for refugees) il Libano ospita 1.124.942 rifugiati siriani, a fronte di una popolazione di circa 4.300.000 cittadini libanesi. In un Paese grande come l’Abruzzo, quando una persona su cinque è un rifugiato di guerra, la situazione rischia di diventare insostenibile. Il ministro degli Affari Sociali libanese Rashid Derbas ha dichiarato sabato che «Il Libano non sta più accogliendo ufficialmente nessun rifugiato siriano, eccetto quelli con pressanti ragioni umanitarie. Chiunque passi il confine siriano-libanese sarà interrogato e dovrà avere una ragione umanitaria per entrare».
E proprio su quel confine in questi giorni si stanno intensificando gli scontri tra esercito regolare libanese e miliziani di Hezbollah da una parte e brigate di fondamentalisti sunniti legati al fronte al-Nusra e Isis dall’altra. In tutto il Libano la tensione sta crescendo in maniera esponenziale per il degenerare della crisi mediorientale, e in particolare per l’emergenza rifugiati. La solidarietà nei confronti dei siriani si è già spesso trasformata in risentimento: i libanesi lamentano che i rifugiati stanno rubando posti di lavoro, abbassano i livelli dei salari, sovraccaricano scuole e ospedali, e peggiorano la carenza di elettricità, che risale a prima della guerra in Siria.
Un altro grosso rischio potrebbe essere la formazione di gruppi fondamentalisti in seno ai campi profughi. Una tendenza già vista prima della guerra civile libanese (1975-1990), quando gruppi di profughi palestinesi si radicalizzarono e i campi diventarono tane sicure per fazioni armate e leader militanti, contribuendo alla destabilizzazione del Paese fino a portarlo alla guerra.
Il fatto che questo Paese sia resistito all’escalation del conflitto siriano, è indicativo dell’unicità si questa nazione nel panorama medioorientale. Per capire le ragioni di questa diversità abbiamo chiesto a Davide Tramballi, research assistant dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), di spiegarci la situazione in Libano.
Cos è successo dopo la guerra civile siriana iniziata nel 2011?
Da quando è esplosa la Siria è iniziata una grandissima crisi umanitaria, con più di un milione di profughi nel giro di due anni, che ha un impatto fortissimo soprattutto nel Nord, nell’area di Tripoli. È la zona più prossima alla Siria, e che da sempre, essendo a larga a maggioranza sunnita, ha subito moltissimo l’influenza siriana. Lì c’è stata sicuramente una forte destabilizzazione a causa dell’emergenza umanitaria e a causa dell’intervento di Hezbollah (il gruppo politico-militare sciita legato all’Iran, ndr). Hezbollah è intervenuta nel conflitto siriano immediatamente, fin dai primissimi mesi, mettendo a disposizione la sua esperienza militare al regime di Assad, che molti dicono altrimenti sarebbe caduto nel primo anno e mezzo di guerra. Questo intervento ha scatenato una reazione da parte sia dei ribelli siriani, che hanno cercato di attaccare il Libano, sia da parte degli stessi libanesi sunniti nel Nord, che hanno iniziato a reagire a questo intervento (vedi l’attentato all’ambasciata iraniana a Beirut). Però la cosa che colpisce è che nonostante il grandissimo numero di profughi e gli scontri a bassa intensità prolungati, la situazione non è mai degenerata come molti analisti sospettavano. Il Libano è riuscito a mantenere un certo livello di coesione inter-settaria. La reazione dei profughi siriani è rimasta contenuta; neanche il Free syrian army, nonostante non fosse islamista e radicale, ha mai avuto un appoggio effettivo da parte dei sunniti libanesi, che non si sono messi ad attaccare Hezbollah pesantemente, scatenando così un conflitto civile. L’impasse politica è rimasta, ci sono stati anche degli smottamenti forti, ma la vera e propria esplosione non si è mai verificata.
Cosa l’ha impedito?
Dei Paesi mediorientali che dovevano esplodere dopo la Siria, la gran parte degli analisti sosteneva che sarebbe stato il Libano, piuttosto che l’Iraq, a subire uno spill-over. Perché non è successo? Innanzitutto per “l’istituzionalizzazione” delle differenze settarie. In un certo senso il Libano, avendo vissuto prima degli altri la crisi sciiti-sunniti, ha creato un sistema che mantiene la situazione in equilibrio, anche se a caro prezzo. Il Paese vive da sempre in un clima in cui le varie identità convivono, tra coalizioni di partiti di diversa appartenenza e governi di unità nazionale. Questo ha portato da una parte un livello di violenza a bassa intensità continuo, ma dall’altra ha impedito che la società esplodesse improvvisamente come è successo in Siria. La grande affluenza di profughi siriani ha fatto sì che molti libanesi si disilludessero contro i siriani stessi, e gli stessi rifugiati sono diventati una fonte di rabbia. Paradossalmente, se da una parte l’emergenza demografica è il fattore di rischio principale, dall’altra parte è anche un motivo di coesione all’interno del Libano. Gli stessi libanesi sunniti, che all’inizio parlavano di fratellanza, quando hanno visto che i Siriani diventavano 500.000, 600.000, un milione, hanno iniziato ad avere paura. Al di là della loro setta, alla fine dei conti i libanesi si sentono principalmente libanesi.
Quali sono, invece, i principali fattori d’instabilità?
Dall’altra parte non bisogna assolutamente dimenticare che dal Libano provengono molti jihadisti che vanno a combattere in Siria e in Iraq (si stima che circa 890 libanesi si siano uniti all’Isis, una cifra importante rispetto alla popolazione totale). Finora la situazione ha tenuto, ma detto questo, il rischio di un’escalation rimane altissimo. Tre sono i pericoli principali: una pressione militare sui confini, soprattutto a Nord, da parte di combattenti siriani jihadisti e non, che potrebbero cercare di fare pressione sul Libano. A questo è collegato il secondo punto. I sunniti libanesi potrebbero scendere in campo contro gli sciiti, a fronte di una crescente guerra settaria. Credo che perché questo avvenga, la situazione dovrebbe degenerare più di quanto non sia avvenuto finora. Ultimo ma non da ultimo, il problema dei campi profughi, anche se non sembra che i fondamentalisti per ora abbiano avuto una grande presa sui siriani emigrati.
Che differenza c’è tra questi campi e quelli palestinesi nella guerra civile libanese?
La grande differenza con quello che è successo con i campi profughi palestinesi durante la guerra civile, è che il movimento palestinese era politicamente organizzato anche in Libano. I profughi Siriani in Libano non hanno un movimento politico di riferimento. Arafat stava a Beirut, che nei primi anni ’70 era anche la sede dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Era un movimento armato, organizzato, una delle milizie che combattevano sul territorio. Le teste del partito erano nella capitale libanese, e c’era un aspetto ideologico che oggi non si vede nei profughi siriani, che sono principalmente disperati in fuga, di cui molti sono donne e bambini. C’è un certo grado d infiltrazione di estremisti, e un fortissimo rischio: se la situazione degenerasse, i siriani potrebbero venire spinti a riversare la loro disperazione sugli sciiti libanesi. Ma è difficile che questo avvenga senza avere il supporto dei sunniti in Libano, che sembrano invece ora prendere le distanze dai siriani. In Libano l’appartenenza politica non è solo legata alla setta, è legata ai gruppi d interesse e in questo caso sembra che finora abbia prevalso questo aspetto. L’impasse delle istituzioni è, infine, un altro elemento che gioca a favore di una potenziale instabilità.
Qual è la situazione politica del Paese?
La politica libanese è attraversata da una crisi istituzionale: è una crisi che fa sì che il Paese sia immobilizzato in uno stallo che deriva da un compromesso tra le diverse componenti settarie del Paese (principalmente: cristiani, sciiti e sunniti, ndr) e le alleanze, che non sono necessariamente settarie, ma che sono trasversali e formano il governo. Al momento le elezioni per il presidente della Repubblica, che erano previste per il 2013, ancora non ci sono state. Ricordo che il Libano ha un governo molto particolare perché è basato sulla condivisione del potere tra le varie sette: il presidente della Repubblica dev’essere per forza cristiano maronita, il presidente del consiglio sunnita e il presidente della camera sciita, secondo i parametri del patto nazionale del 1946, ristabiliti e riadattati ai mutati equilibri dagli accordi di Ta’if nel 1990 (quelli che ha messo fine alla guerra civile, durata quindici anni, ndr).
Che ruolo ha avuto la Siria nella storia libanese?
La Siria aveva un fortissimo impatto sul Libano. Gli accordi di Ta’if si basavano appunto su un tacito accordo tra Israele, che occupava il Nord della Galilea (la zona che adesso è sotto il controllo dell’ Onu, ma di fatto di Hezbollah, ndr), e i Siriani al confine Nord ma di fatto con un controllo effettivo del Paese. Si è creata la cosiddetta militia republic: un sistema di milizie armate che si combattevano durante la guerra civile e che sono state trasferite nella arena politica. Questa militia repubblic rispecchia le linee settarie, ma spesso le alleanze tra le milizie trascendono l’appartenenza specifica. In questo contesto si sono inserite le due grandi potenze regionali, Iran e Arabia Saudita. Teheran e Riad hanno sfruttato proprio l’elemento religioso come strumento della loro protezione esterna, finanziando e sostenendo i partiti politici “amici” e le milizie di riferimento. A questo si aggiungono due ulteriori elementi, che hanno cambiato la situazione dalla fine della guerra ad oggi: l’aumento degli sciiti e l’emigrazione dei cristiani. Gli sciiti, che erano storicamente sotto rappresentati, a causa dell’esplosione demografica (gli sciiti fanno più figli) diventano sempre più rilevanti. A incarnare la grande volontà sciita di diventare il principale gruppo del Paese è Hezbollah. Grazie alla forte unità degli sciiti, a fronte della disunità degli altri gruppi, il “Partito di Dio” diventa una vera e propria forza, (molto anche grazie ai finanziamenti iraniani) facendo leva su tematiche che vanno oltre l’identità settaria sciita: investe pesantemente nel sociale, negli ospedali, nelle scuole, in un contesto nel quale lo stato libanese (specialmente al Sud) non è mai esistito. Inoltre, Israele gli ha fornito un elemento di propaganda perfetto, perché il continuo stato di guerra sulla frontiera meridionale, che è quella occupata da Hezbollah, gli ha dato la possibilità di presentarsi sempre come il gruppo che difende veramente il Libano.