In questi giorni la Camera dei Deputati sta discutendo la legge delega di riforma del mercato del lavoro, più nota a tutti come Jobs Act. Dopo scontri politici, anche molto duri, nel Partito Democratico, e fra Pd stesso e sindacati – Cgil in testa – pare che il governo sia orientato ad tornare sui suoi passi, reinserendo nel decreto il reintegro sul posto di lavoro, nel caso di un licenziamento disciplinare. L’accordo trovato fra Renzi e la sinistra del partito prevede una tipizzazione delle fattispecie in cui il licenziamento per motivi disciplinari potrebbe essere considerato ingiusto e risarcito con la reintegra.
A prima vista, sembrerebbe una modifica di poco conto, soprattutto poiché non sono previste modifiche sostanziali alle tutele in caso di licenziamento per motivi economici. Eppure, sia nella forma che ha portato all’accordo, sia nella sostanza stessa della normativa proposta, le sirene della sinistra tradizionale – contraria in questi anni a qualsiasi intervento deciso di riforma del mercato del lavoro – non smettono di incantare il prode Ulisse di governo, nonostante la sbandierata resistenza delle corde che lo legano all’albero della nave in tempesta.
Quando il gioco si fa duro, insomma, Renzi si dimostra incline al compromesso, svelando la seconda faccia della medaglia della sua azione politica, le cui fortune sembravano sin qui anche essere dovute a una sana dose di decisionismo. Trattando con gli avversari interni, spesso sbeffeggiati come irrilevanti, peraltro, ha mostrato come in effetti tanto irrilevanti non siano. Sia chiaro, nessuno si era illuso che le riforme non dovessero essere discusse con le forze parlamentari o partitiche, ma come sempre nel momento della verità, chi frena trova appigli insperati a cui aggrapparsi, mentre chi governa con piglio gagliardo deve sedersi al tavolo della trattativa tante volte bollata come “palude”.
Tornando alla sostanza del problema, la modifica si configura come contraria alla logica generale dell’intervento riformatore nel campo delle tutele contrattuali. Non si capisce, ad esempio, come sia possibile tipizzare fattispecie di licenziamenti disciplinari, senza che sia prevista una clausola di salvaguardia per tutti i casi che non ricadranno nelle tipologie predette.
Ancora: la logica della riforma, più volte sbandierata dal governo, da Renzi, dai suoi collaboratori economici, pareva quella di limitare l’intrusione della giustizia in un caso di controversie contrattuali. Nonostante le polemiche piovute da più parti – secondo le quali anche un contratto non può essere considerato “al di sopra della giurisdizione” – urge sottolineare che questa logica trova il suo fondamento nell’intenzione di delimitare l’incertezza nel costo affrontato in caso di licenziamento.
Supponiamo, ad esempio, che un’impresa voglia licenziare un lavoratore per motivi disciplinari, causa perdite o mancati guadagni a causa di comportamenti non corretti. Nell’iniziare la procedura, l’interesse dell’imprenditore, ma in ultima istanza anche del lavoratore, è quello di minimizzare i costi di transazione, e fra questi in massima parte i costi di un eventuale causa.
Una procedura che preveda – sempre e comunque – un indennizzo monetario, legato all’anzianità del lavoratore nell’impresa, permette di avere un metro di paragone per stimare i costi della decisione di licenziamento. La situazione attuale è tale per cui è impossibile, sia per il lavoratore, sia per l’impresa, stimare a priori il costo monetario e la probabilità di successo di fronte al giudice. Un sistema che non preveda il reintegro, in quest’ottica, è in grado di favorire gli accordi fra le parti e non giudiziali, minimizzando i costi di una causa. Che, ricordiamolo, sottraggono risorse al surplus da spartire in caso di rottura del rapporto di lavoro.
Seppur sia difficile dire quanto costi all’impresa tenersi un lavoratore che crea problemi, il reintegro di un lavoratore licenziato per motivi disciplinari è da considerare come un’intrusione in decisioni che spettano a imprenditore e lavoratore, salvi i diritti di risarcimento in caso di violazione della normativa sulla giusta causa. Reinserire la reintegra, sebbene per i soli casi di licenziamenti disciplinari, porta con sé il rischio di riportare prepotentemente la giurisdizione nel cuore degli accordi contrattuali privati. Siamo proprio sicuri sia una buona cosa, in un paese come l’Italia?