Sono molte le accezioni con cui abbiamo definito le nostre città, identificando la progressiva integrazione delle tecnologie dell’informazione con infrastrutture e servizi urbani. Pur simili, tali accezioni indicano fasi e livelli diversi di integrazione e caratterizzano vari usi dell’ICT. La comunicazione digitale (wired city) e l’elaborazione di modelli di città virtuali (virtual city) hanno fatto spazio nell’ultimo decennio alla digitalizzazione di servizi pubblici (e-government), privati (e-commerce) e delle municipalizzate con sostanziale cambiamento del rapporto tra cittadini, organizzazioni (istituzioni ed imprese) ed ambiente urbano (digital city). La definizione di agorà virtuali ha anche facilitato la circolazione di idee e la creazione di incubatori dell’innovazione (information city) che il processo di democratizzazione della conoscenza ha valorizzato con sistemi di innovazione territoriale (intelligent city).
Smart city trascende però il concetto di innovazione dei servizi ed apre alla creazione di nuovi mercati e modelli di business in grado di soppiantare quelli tradizionali. Ciò grazie alla disponibilità ed all’uso di una vastissima quantità di dati (Big Data) generati da servizi ed applicazioni digitali. “Smartness” non mette dunque in discussione la giustificazione del concetto di città (come aggregazione geografica delle attività umane, facilitatore e stimolo dell’interazione sociale, ecc.) ma aggiorna le modalità con cui domanda ed offerta di servizi nascono e si incontrano. Uber ed Airbnb sono due degli esempi più noti di questa rivoluzione smart.
In oltre duecento città Uber offre la possibilità a chiunque sia online di localizzare il veicolo più vicino, visualizzarne il tragitto sullo smartphone e comunicare in tempo reale la necessità di un servizio taxi customizzato con indicazione del punto di raccolta. Un servizio rivoluzionario nella gestione della mobilità urbana che sta mettendo in discussione la sostenibilità dei modelli di business delle tradizionali società di taxi. Il successo di Uber è reso possibile dalla creazione di due comunità – i potenziali passeggeri e gli autisti di veicoli taxi – che generano dati e li condividono in rete. Un sistema di feedback sull’affidabilità dei conducenti e modalità di pagamento in mobilità rafforzano la pervasività del servizio.
Con oltre 800.000 annunci in 34.000 città di 190 paesi, Airbnb ha rivoluzionato l’accesso al mercato dell’ospitalità dando facoltà ai proprietari di posti letto non sfruttati di offrirli in affitto anche in regime di bed & breakfast. Come le caso di Uber, anche Airbnb si basa su un nuovo utilizzo dei dati generati da due comunità di individui (proprietari di case e turisti) in cerca di soluzioni innovative rispetto a quelle offerte dal mercato. Feedback, validazione delle identità e pagamenti “on the go” rendono facile e veloce l’accesso al mercato e l’integrazione con i social network aumenta la velocità di circolazione di informazione tra gli utenti.
Il successo di Uber ed Airbnb non deve però indurre a considerare che la transizione verso città smart sia semplice ed immediata. Istituzioni, cittadini ed aziende devono infatti poter contare sulla dispobilità di infrastrutture in grado di sostenere il cambiamento (reti in banda larga) e devono imparare ad interpretare l’utilizzo della tecnologia come opportunità di sviluppo e non come minaccia dello status quo. In aggiunta, cogliere le potenzialità dell’uso dei Big Data in termini di sostenibilità (economica, ambientale, ecc.) della vita in città richiede la creazione di nuovi modelli operativi di istituzioni ed aziende e la percezione dei vantaggi delle scelte smart da parte dei cittadini.
È dunque questo il momento di giocare d’anticipo verso scenari di difficile gestione delle risorse urbane e della qualità della vita. Il tasso di crescita della popolazione e l’inurbamento (nel 2050 l’80% degli europei vivrà in città) rendono non più procrastinabile l’adozione di soluzioni tecnologiche già a disposizione.
*Research Fellow, Cass Business School, City University London