Il Parlamento europeo ha approvato una mozione non vincolante sul “sostenere i diritti dei consumatori nel mercato unico digitale”. Tra le altre cose, questa mozione è un invito alla Commissione europea “a prendere in considerazione le proposte che hanno come obiettivo quello di separare i motori di ricerca dagli altri servizi commerciali”. Seppur senza nominarlo, la proposta punta il dito al caso antitrust di Google, in cui Google è accusato di utilizzare il suo algoritmo di ricerca in modo non imparziale: in risposta alle query di ricerca di un utente, i link a siti web che forniscono notizie o danno l’accesso a servizi alle imprese, ad esempio, appaiono dopo i servizi commerciali dello stesso Google. La Commissione ha esaminato questo caso per cinque anni, mentre Google ha tentato di patteggiare ben tre volte, senza successo.
Con questa iniziativa, il Parlamento sembra suggerire una soluzione radicale. Separare il motore di ricerca di Google dagli altri servizi commerciali significherebbe, con ogni probabilità, forzare una divisione nel business di Google, separando la sezione che fornisce l’input (i risultati delle chiavi di ricerca necessari per dare visibilità ai servizi delle imprese) da quella che fornisce prodotti specifici (ad esempio, le news). L’accesso alla sezione degli input andrebbe probabilmente regolato, un po’come le società di telecomunicazioni o le aziende energetiche sono costrette a vendere l’accesso all’ingrosso ai propri network per consentire la concorrenza nel mercato retail. La proposta ha una sua logica. Se Google discrimina davvero gli operatori a valle, una tale separazione glielo impedirebbe.
La proposta del Parlamento non obbliga la Commissione ad agire. L’applicazione delle leggi antitrust è (e dovrebbe essere) una prerogativa delle autorità di antitrust, e ogni tentativo di pressione politica è molto pericoloso, perché mina il principio fondamentale dell’indipendenza nell’applicazione della legge. Tuttavia, qualora la Commissione prendesse in considerazione la proposta seguendo il percorso proposto dal Parlamento, sarebbe lecito chiedersi se sia la decisione giusta. Oltre ad essere limitata da una serie di ostacoli di natura giuridica (ad esempio un simile intervento richiederà molto probabilmente nuove leggi) e pratica (Google dovrebbe applicare due diversi modelli di business all’interno e all’esterno dell’Europa), la proposta ha un difetto fondamentale. Affronta il problema più dal punto di vista dei concorrenti di Google che non da quello degli utenti finali (nonostante l’intenzione sia quella di “salvaguardare i diritti dei consumatori).
Per qualsiasi caso di antitrust è necessario, per prima cosa, capire il meccanismo con cui i consumatori sarebbero danneggiati dal comportamento della società indagata. In questo caso significa stabilire se gli utenti siano attualmente insoddisfatti dei servizi di Google e, in caso di risposta affermativa, chiedersi il perché non usino altri motori di ricerca, dal momento che sono disponibili gratuitamente e non esistono costi nel cambiare servizio abbandonando Google. Una volta identificato il problema, i rimedi dovranno essere progettati dalle autorità per porre rimedio al comportamento dannoso, con la consapevolezza che i consumatori dovranno trovarsi in una situazione migliore di quella precedente. La soluzione di separare i servizi potrebbe proteggere direttamente i concorrenti di Google, ma sembra non avere benefici per gli utenti finali, i quali potrebbero addirittura ritrovarsi in una condizione peggiore. Per esempio, la teoria economica suggerisce che l’integrazione verticale tra i servizi complementari (quella che il Parlamento suggerisce possa essere scissa) può creare importanti sinergie. In questo caso uno Google “non diviso” potrebbe essere in grado di identificare con maggiore precisione le esigenze degli utenti e fornire risposte rapide alle loro domande.
Questo principio si applica anche alle compagnie telefoniche e ai fornitori di energia. Ma qui la differenza fondamentale è che la perdita di sinergia derivante dalla “separazione” potrebbe non venire compensata da un beneficio per il mercato a valle: l’accesso a Google è libero e se non lo fosse gli utenti potrebbero con facilità rivolgersi ad altri servizi del genere. Mentre regolamentare l’accesso alle reti telefoniche è essenziale per permettere la concorrenza nel mercato retail e mantenere bassi i prezzi e alta la qualità, non è così nel caso del mercato dei servizi digitali, dove la concorrenza è già forte e molto dinamica.
Ma per gli utenti, un rischio anche più grande sarebbe il segnale che un rimedio così intrusivo darebbe al mercato. Non c’è dubbio che Google abbia sviluppato un prodotto di successo che viene valutato in modo molto positivo, soprattutto dagli utenti europei (e questo spiega la sua alta quota di mercato). Penalizzarlo spaccando il suo modello di business suggerirebbe a ogni azienda innovatrice, come Google, di non tentare nemmeno la strada del successo, sapendo che un giorno anche il proprio modello di business potrebbe venire colpito. È contrario, insomma, alla natura stessa delle politiche concorrenziali, il cui obiettivo è di ricompensare le imprese di successo proprio perché sono di successo, e non di punirle – a meno che non venga dimostrato che l’azienda abbia ottenuto il suo potere di mercato con comportamenti illeciti. È, poi, fondamentalmente contrario agli interessi del consumatore, perché le aziende innovatrici che in futuro vorranno portare i loro prodotti in Europa saranno sempre meno.
Il Parlamento europeo è giustamente preoccupato – e ha il potere di co-decisione – riguardo a una serie di questioni che riguardano i mercati digitali e che potrebbero richiedere interventi legislativi: ad esempio la protezione della privacy, il copyright o la cybersecurity. Ma quando si tratta di applicare le leggi della Ue, il Parlamento non deve tentare di influenzare la Commissione.