La cultura giuridica europea degli ultimi decenni ha molti meriti. I trattati europei, la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, i regolamenti e le direttive comunitarie, unitamente alle sentenze della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno garantito notevoli progressi nella tutela delle libertà economiche e dei diritti civili dell’individuo, in primo luogo nei confronti dello Stato.
Gli italiani hanno tratto molti benefici da questo sviluppo in ragione del fatto che la forma di Stato della Repubblica Italiana, a dispetto della lettera e delle interpretazioni più liberali della Costituzione, è stata nei fatti, e lo è tutt’ora, ben lontana dal riconoscere una piena ed efficace sovranità all’individuo.
Gli esempi che si potrebbero enumerare sono molteplici, tanto sul piano delle libertà economiche quanto su quello dei diritti civili. Ci limitiamo semplicemente a ricordarne alcuni: la tutela e la promozione della concorrenza, ad esempio, intesa come libertà dell’individuo di intraprendere una qualsivoglia attività economica e di contendersi un mercato con operatori già presenti al suo interno, è diventato un principio di rango costituzionale esclusivamente grazie al recepimento del diritto europeo nell’ordinamento nazionale. Così come l’obbligo delle pubbliche amministrazioni di aggiudicare appalti di beni, forniture e servizi pressoché esclusivamente per il tramite di procedure, aperte al maggior numero possibile di operatori, all’interno delle quali prevalgono coloro che risultano proporre l’offerta economicamente più vantaggiosa od il prezzo più basso, è una acquisizione di diritto interno importata dal diritto europeo.
Se oggi, inoltre, un soggetto privato espropriato di un proprio bene da un’autorità pubblica può ben pretendere dall’ente espropriante il reale valore venale, e non già un valore nettamente inferiore, come era originariamente previsto dall’ordinamento italiano, il merito è delle disposizioni della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle sentenze della relativa Corte, anche esse integralmente recepite, ad esempio, dalla Corte Costituzionale italiana. Persino il principio di legalità, a tenore del quale nessuna occupazione materiale di beni privati da parte dell’amministrazione pubblica può condurre ad una espropriazione vera e propria in assenza di una procedura che rispetti le regole sancite dalla legge ordinaria, è adesso rispettato in Italia grazie alle reprimende delle istituzioni europee.
La tutela dei detenuti oppressi all’interno delle carceri, sino al punto di potere essere considerati sottoposti a tortura, non ha ricevuto spontanea ed adeguata assicurazione dall’ordinamento italiano ma solo dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Allo stesso modo la possibilità di assegnare il cognome materno ai propri figli, la facoltà di procedere all’analisi pre-impianto del feto ed alla fecondazione eterologa, il riconoscimento delle coppie di fatto, sono tutte libertà originariamente disconosciute all’interno dell’ordinamento repubblicano e che vi hanno trovato ingresso solo in virtù della pressione degli organi giurisdizionali europei.
In tutti questi casi, ed in molti altri ancora, il diritto europeo ha consentito sia l’eliminazione di divieti che opprimevano in maniera intollerabile le libertà individuali che il riequilibrio di un rapporto Stato/individuo originariamente troppo sbilanciato dal lato dell’Autorità pubblica. Ma, allo stesso tempo, si è trattato semplicemente di eliminare divieti, allentare vincoli e ampliare la sfera d’azione individuale. Se volessimo usare un linguaggio più squisitamente giuridico potremmo dire che si è avuta un’espansione delle libertà negative, di quelle libertà, cioè, il cui esercizio delle facoltà ad esse connesse richiede semplicemente l’arretramento dello Stato e l’eliminazione della sua ingerenza dalla vita dei cittadini. Mai si è trattato, invece, di rivendicare diritti sociali, diritti cioè, che consistono nella esplicita richiesta allo Stato di fare qualcosa, d’assicurare prestazioni ulteriori rispetto ai livelli essenziali concernenti i diritti civili, di ridistribuire ricchezza.
Ecco perché risulta di particolare interesse, rispetto al quadro poco sopra delineato, la sentenza della Corte di giustizia europea che ha ritenuto di dovere sanzionare il regime del rapporto di lavoro degli insegnanti cosiddetti “precari” delle scuole pubbliche italiane per il semplice fatto che essi non sono stati ancora, per così dire, stabilizzati. Criticabile, per la verità, non è tanto la sentenza, che si è limitata a fare applicazione della direttiva 1999/707CE del Consiglio quanto da un lato, la stessa direttiva che ha sostanzialmente recepito l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che è un accordo sindacale, dall’altro, quest’ultima disciplina che, per quanto oggettivamente violata dallo Stato italiano, appare oggi non trovare alcuna giustificazione.
In primo luogo non si comprende perché la normale forma di lavoro debba essere, secondo l’accordo quadro, quella a tempo indeterminato e non anche quella a tempo determinato. Né perché l’uso reiterato dei contratti a tempo determinato, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, debba essere qualificato come un abuso da prevenire prima e da reprimere poi. Il lavoro altro non è che una merce scambiata fra chi la offre e chi ne fa richiesta. Le ragioni per le quali il vincolo fra le due parti debba essere di necessità a tempo indeterminato, anche quando i fruitori richiedono invece contratti a tempo, rimane imperscrutabile. Non si comprende soprattutto quale ancoraggio giuridico così forte possa essere invocato per imporre per legge a chi “ compra” lavoro la forma del contratto a tempo indeterminato. Quale sia il diritto fondamentale in virtù del quale si possa limitare la libertà di chi vuole comprare lavoro a tempo determinato per costringerlo a “ subire” un vincolo contrattuale a tempo indeterminato non è mai stato chiarito da nessuno.
Forse si tratta della necessità di assicurare certezza e stabilità ai prestatori di lavoro? Ma possono stabilità e certezza del lavoratore prescindere dalla libertà del datore di lavoro e dal bisogno effettivo, reale e mutevole nel corso del tempo delle prestazioni lavorative? Si può, in sostanza, imporre al datore di lavoro di vincolarsi a prescindere dalla quantità di lavoro di cui ha realmente necessità e dagli impegni che vuole liberamente assumere? Dovrebbe l’ordinamento, allora, occuparsi anche del bisogno di certezza e stabilità di tutti quegli operatori economici (imprenditori e liberi professionisti) che per definizione non possono fare affidamento sulla continuità dei rapporti con le loro controparti contrattuali?
Forse si tratta di non discriminare i lavoratori a tempo determinato rispetto ai colleghi che beneficiano di un contratto a tempo indeterminato? Ma, a parte la libertà del datore di lavoro di stabilire la forma di contratto cui intende vincolarsi, le condizioni obiettive potrebbero essere mutate, la disponibilità di risorse economiche diminuite, il contesto generale radicalmente capovolto. Nel caso che riguarda i docenti precari italiani la Corte di Giustizia ha evidenziato che in realtà lo Stato necessita di numerosissimi lavoratori per coprire posti vacanti a tempo indeterminato e per tale ragione non può trovare giustificazione il mancato esperimento delle procedure concorsuali per la stipula di contratti a tempo indeterminato né il continuato rinnovo dei contratti a tempo determinato che configurerebbe, in definitiva, un abuso.
Si deve evidenziare, tuttavia, come da un lato la pubblica amministrazione italiana agisca in questo caso con i poteri del privato datore di lavoro, cosicché non può riproporsi lo schema Autorità/libertà e non si può in alcun modo ritenere che il lavoratore debba espandere una libertà fondamentale compressa dallo Stato, dall’altro, che le ragioni per le quali l’amministrazione scolastica non ha ancora proceduto alla stipula dei contratti a tempo indeterminato potrebbero essere molteplici e tutte pressoché fondate.
Sia che si tratti di difficoltà economiche che impediscono la celebrazione dei concorsi pubblici, sia che si tratti di impedimenti organizzativi, il lavoratore non ha il diritto soggettivo, in senso tecnico, di pretendere di diventare lavoratore subordinato a tempo indeterminato. Il datore di lavoro non può essere costretto ad esborsi aggiuntivi rispetto a quelli che rappresentano il corrispettivo contrattuale delle prestazione resa dal lavoratore. Il docente precario svolge una prestazione di durata annuale e per quella prestazione viene integralmente pagato. Non dovrebbero esistere obbligazioni ulteriori.
Sfugge, peraltro, come possa sorreggersi l’argomentazione implicita nella sentenza della Corte di Giustizia secondo la quale i diritti sociali esisterebbero a prescindere dalle capacità economiche di chi dovrebbe tutelarli. Per essere chiari: se la stipula di contratti a tempo indeterminato dovesse rappresentare per qualsivoglia ragione un aggravio di spesa pubblica (vuoi per celebrare i concorsi, vuoi per sostenere gli oneri aggiuntivi del contratto a tempo indeterminato) sarebbe lo Stato obbligato giuridicamente ad imporre ai contribuenti un aumento della tassazione? E perché mai?
D’altronde, la dottrina e la giurisprudenza anche di alcuni Paesi europei (Germania in testa) conoscono l’esistenza della “riserva del possibile”, del limite, cioè, che incontra la tutela dei diritti sociali di fronte alla carenza dei mezzi materiali necessari ad assicurarne l’effettività. La soglia che non può essere valicata, secondo questa teorica del buon senso, è quella rappresentata dalla violazione del nucleo fondamentale del diritto.
Sulla base di queste considerazioni si può affermare, allora, che ai docenti precari italiani non dovrebbe essere riconosciuto alcun diritto soggettivo alla celebrazione dei concorsi pubblici. Né, a maggior ragione, alla trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo indeterminato o al risarcimento del danno.
In aggiunta alla considerazione sopra esposta secondo la quale non dovrebbe essere possibile imporre ad una parte contrattuale una specifica forma di contratto a prescindere dalla sua volontà, deve, adesso, osservarsi, infatti, che la Costituzione Repubblicana prevede l’accesso al pubblico impiego solo in seguito alla selezione per concorso pubblico e non già per trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. La Corte costituzionale ha ripetuto senza sosta che si tratta di un principio fondamentale non facilmente derogabile. Anzi, si tratta di un principio che può ben fungere, secondo una nota teoria costituzionale, da controlimite, da argine, cioè, alla permeabilità dell’ordinamento italiano al diritto comunitario. Infine, non si vede quale risarcimento del danno debba essere corrisposto ai precari e ciò per la semplice ragione che una condotta illecita, a ben vedere, non c’è stata, né alcun danno è stato prodotto, considerato che al docente precario è stato pagato il corrispettivo delle prestazioni effettivamente rese.
*Avvocato Amministrativista
@roccotodero