Charlie Hebdo resta Charlie Hebdo, e niente è perdonato

Charlie Hebdo resta Charlie Hebdo, e niente è perdonato

Sulla copertina di Charlie Hebdo del 26 settembre 2012 compariva un uomo delle caverne. In una mano teneva una fiaccola accesa e nell’altra una coppa d’olio. Sotto la testata e il celebre motto “Journal irresponsable”, la didascalia “L’invention de l’humor”: l’invenzione dello humor. Qualche giorno dopo l’uscita di quel numero ne venne diffusa un’altra versione, questa volta la copertina era completamente bianca tranne che per il motto a tutta pagina: “Journal responsable”. Sopra la testata compariva la scritta “Fini de rire”, abbiamo finito di ridere. O tutto o niente, scriveva Alexander Stille sul New Yorker: non c’è modo migliore per riassumere la visione della satira del giornale che in molti hanno imparato solo ora a chiamare semplicemente Charlie.

Ma non basta la confidenza del nome proprio a trasformare l’ironia aggressiva e feroce in uno stendardo di fratellanza universale che se ne freghi delle ipocrisie purché due milioni di persone sfilino per le vie di Parigi, ci vuole anche una buona dose di incomprensione e l’opinione pubblica, in questi giorni, ne ha dimostrata a valanghe.

Sarebbe stato estremamente ingenuo considerare la copertina bianca del 2012 come un gesto di ammorbidimento e di accettazione delle critiche, come considerare il passaggio da “irresponsable” a “responsable” un’ammissione di colpa e un ritorno sui propri passi. E infatti a nessuno è passato per la testa. Charlie non cambia idea, questo è il messaggio che per anni la rivista ha perpetuato senza flessioni né vergogna e non lo cambierà per quanto violenta possa la risposta scaturita.

Il 16 novembre del 1970 usciva nelle edicole francesi il numero 94 di L’hebdo Hara Kiri, costola settimanale del mensile satirico Hara Kiri. Il titolo in prima pagina era Bal tragique à Colombey: un mort. Il “bal tragique” (ballo tragico, più o meno) a cui si fa riferimento era il termine con cui la stampa francese aveva battezzato un evento drammatico avvenuto qualche settimana prima: durante l’incendio in una discoteca avevano perso la vita centoquarantasei persone. I giornali e la televisione avevano coperto la notizia in maniera quasi macchiettistica, apparentemente alla ricerca della spettacolarità della situazione, più che nel rispetto per la gravità del fatto. Hara Kiri non se l’era fatta scappare e, alla morte del generale De Gaulle (un mort), ne aveva approfittato per prendersi gioco dell’ipocrisia dei media e delle istituzioni. Il ministro degli interni dell’epoca, Raymond Marcellin, ha fatto sospendere le pubblicazioni del settimanale il 17 novembre — probabilmente la pratica era già in corso, ma il tempismo è impressionante. Nemmeno una settimana dopo nasceva Charlie Hebdo, in onore proprio di quel Charles De Gaulle che ne aveva involontariamente causato la chiusura, per lo meno secondo il fondatore Georges Wolinski . Uno dei lanci recitava: «Hara Kiri è morto. Leggete Charlie Hebdo, il giornale che approfitta delle disgrazie altrui». Le premesse erano chiare: non esiste niente di sacro e niente che possa convincerci a fermarci.

Da lì sono cominciati i guai che conosciamo, le strisce dei Peanuts in ricordo delle origini, la sospensione delle pubblicazioni nel 1981 e la ripresa quasi dieci anni più tardi, le copertine provocatorie nei confronti di tutte le religioni, la comparsa di Maometto nel 2006, le vignette di rattoppo che alla fine non facevano che gettare altra benzina sul fuoco, il licenziamento di Siné, l’attentato del 2011, François Hollande con la zip abbassata e il pene a fargli da portavoce dopo gli scandali del gennaio 2014, la denuncia di Marine Le Pen, le scuse richieste ma mai diffuse e infine i fatti ormai troppo familiari. La storia di Charlie è una storia di linee di demarcazione spostate di volta in volta più avanti, una storia di eccessi e camminate in bilico sul ciglio del buon gusto. Quasi nessun rimpianto, la percezione di una posizione precisa e irremovibile e una scarsa predisposizione a rivedere le proprie azioni. Ogni affronto è l’occasione per mordere ancora più a fondo, ogni ritorno da una chiusura il momento giusto per stringere ancora di più il cappio attorno a tutto quanto sia mai stato sacralizzato.

Che il dibattito di questi giorni, soprattutto in Italia, non abbia mai tenuto in considerazione la vera natura della rivista è cosa evidente. La strumentalizzazione della testata ha pesato un po’ da una parte e un po’ dall’altra dimostrando solamente quanto è difficile capire una lingua alla quale non siamo abituati. C’è di buono che nessuno si sia lanciato in paragoni di scarsa efficacia — senza nulla togliere a importanti riviste satiriche italiane, non ne esiste una che possa ricordare Charlie — che non avrebbero fatto altro che gettare ancora più semplicismo su una situazione già di per sé compromessa. Chi ha inventato la finta copertina “Italie Merde” non è andato tanto lontano dal fulcro del problema, cercando di svegliare un’opinione pubblica incantata dai grandi movimenti internazionali e decisa, come spesso accade in questi casi, a partecipare ancora prima di comprendere. A nulla è servito, naturalmente, se non a risvegliare qualche animo sensibile.

Il rischio è che, paradossalmente, l’attenzione che porta a tirare tre milioni di copie da distribuire in tutta Europa per questo ritorno, significativamente figlio di nessuna sospensione, sia più dannosa che altro per la natura del giornale, nato per non essere universale e anzi con l’ambizioso obiettivo di offendere quanto più pubblico possibile. In uno strano attorcigliamento dei princìpi, che somiglia molto a quelle regole iconoclastiche che sono causa dell’origine di tutti i mali e che temono che i falsi idoli possano distogliere l’attenzione dalle vere fedi, se Charlie diventa il simbolo della libertà di espressione viene in qualche modo divorata da se stessa e rischia di perdere efficacia di fronte agli sguardi ebeti che nella copertina di oggi — diffusa ieri da Libération — leggono un messaggio “poetico” o di riappacificazione, ignorando completamente il fatto che Maometto sia comunque Maometto e che la sua forma — blasfema già per definizione, visto che il punto è che non lo si debba vedere in faccia — sia quella che è sempre stata nelle vignette di Charb e compagni (senza il bisogno di specificare). Chi non coglie il rilancio in questo caso è chi pensa che basti il ritrovato concetto di “libertà di espressione” a rabbonire gli animi e a renderci tutti uguali, quando forse soltanto la ferocia a cui tutti i credi e le istituzioni erano sottoposti tra le pagine del settimanale bastava a essere un efficace equalizzatore sociale. Chi oggi è convinto di aver trovato un nuovo scudo all’incomprensione e alla cattiveria umana in una rivista sempre schierata e mai generalista, sbaglia, e domani non saprà cosa sta leggendo e sarà convinto che davvero “tutto è perdonato”.

L’ignoranza dei cons, che sono convinti di sapere pur non avendo capito niente, era uno dei temi preferiti da Wolinski che, per ironia della sorte, non è più qui a spiegarcela.

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