Il cinema moderno comincia con un reporter. E se anche poi la storia è quella del magnate Charles Foster Kane, l’impronta rimane come un marchio a battezzare tutto quello che verrà. E allora i decenni successivi sono fatti di redattori inesistenti ma rimasti nella leggenda e frasi in realtà mai pronunciate ma che col tempo sono diventate il motto di una professione. Dai tempi delle distinte stampa infilate nella fascia del borsalino, dei flash improvvisi e frastornanti e degli appunti stenografati, il cinema trabocca di giornalismo. Si potrebbe tracciare una storia del rapporto dell’umanità con la notizia soltanto passando attraverso il film e non andremmo troppo lontani da quella che è la verità storica. Forse è la facilità del raccontare una vicenda attraverso le parole di altri, oppure la comodità di avere un vettore professionale che per sua natura si aggira in tutti gli ambienti stando bene attento a non farsi mai gli affari suoi, fatto sta che se tutto è cominciato dal giornalismo, vale quantomeno la pena di tracciarne un’analisi.
Se in Quinto potere il racconto giornalistico fa da vettore e causa, dipingendo un’editoria viziata e faziosa, è probabilmente con L’ultima minaccia che il reporter prende forma al di là della voce narrante. La storia è quella della chiusura del New York World dopo la morte di Joseph Pulitzer e il volto quello di Humphrey Bogart. Fatta eccezione per lo sfogo «è la stampa, bellezza! La stampa! E tu non puoi farci niente!», è attorno a un’altra citazione che si traccia il profilo della nuova visione professionale: «Se un esercito di scimmie battesse per un tempo sufficiente sui tasti di macchine da scrivere, produrrebbero prima o poi tutti i libri del British Museum», «Sì, ma poi chi diavolo li stamperebbe?» esplode Bogart con quelle famosissime sopracciglia sollevate.In L’uomo che uccise Liberty Valance, diretto da John Ford nel 1962, Dutton Peabody, interpretato da Edmond O’Brien, è l’incarnazione del giornalista cinematografico degli anni Sessanta: poetico, idealista, disilluso e alcolizzato. Da solo trascina lo Shinebone Star — «Fondatore, proprietario, direttore e ogni tanto do anche una pulita», è il suo biglietto da visita — e pende dalle labbra di un senatore che racconta le storie come se le ricorda. Ma «questo è il West, senatore. Quando la leggenda diventa verità, noi stampiamo la leggenda», per rimanere in citazione.
La scienza della notizia si stava formando e ancora non era chiaro come andasse considerata. Sarebbero passati una decina d’anni prima che la forza dirompente della stampa rompesse gli argini e il cinema scegliesse di abbandonare lo stereotipo incerto per quello eroico. Intanto i reporter erano figure a metà tra il losco e lo sconsiderato. Simpatici ma inaffidabili, sempre a caccia della dichiarazione facile e pronti a distorcere quanto possibile per non bucare i tempi di consegna. Appena prima di Liberty Valance, nel 1960, Federico Fellini aveva raccontato al mondo dell’esistenza dei giornalisti scandalistici con La dolce vita. Marcello Rubini — Mastroianni nel film — è un donnaiolo pronto a tutto, ma non immune alle crisi di coscienza. Di tutt’altra pasta è un personaggio secondario, consacrato alla storia in veste di neologismo: il fotografo Paparazzo. Correre dietro alla foto era il modo dare allo sciacallaggio un profilo più alto e Fellini lo mette magistralmente in scena, dipingendone il passaggio da espediente a professione.
C’è un momento il cui le cose cambiano e prendono un verso inaspettato. Nel 1976, all’uscita di Tutti gli uomini del presidente, il giornalista era rimasto congelato tra il romanticismo e il cinismo. Solo un anno prima era uscito nelle sale Professione: reporter di Michelangelo Antonioni per l’interpretazione magistrale di Jack Nicholson nei panni di un reporter all’apice della carriera, annoiato e stanco, che inscena la propria morte pur di fuggire dalla routine. Una figura quasi profetica, che denunciava la necessità di uno svecchiamento dello stereotipo. Richard Nixon fa da macchina ispiratrice per quella che è forse la più famosa pellicola di indagine giornalistica della storia. Tutti gli uomini del presidente racconta i fatti intorno allo scandalo Watergate, avvenuto solo pochi anni prima, in maniera fedele e sufficientemente eroica da cambiare le carte in tavola. I giornalisti — Robert Redford e Dustin Hoffman per la regia di Alan Pakula, se ci fosse il bisogno di ricordarlo — diventano eroi e mettono da parte quell’atteggiamento intrigante che si sono portati dietro per i trent’anni precedenti. L’indagine porta al bene e si compie, per quanto possibile, nei limiti della legalità tra parcheggi oscuri e gole profonde.
Sarebbero venuti gli anni di David Frost, che nel 1977 porta le stesso spettro della cattiva politica che aveva esaltato Woodward e Bernstein in televisione. Lo mette alle corde e strangola con le sue stesse dichiarazioni. Peter Morgan ha tradotto l’intera vicenda del duello Frost/Nixon per il teatro nel 2006 e nel 2008 Ron Howard ne ha diretto la versione cinematografica.
A questo punto i giornalisti cinematografici sono cambiati per sempre, somigliano a quelli in carne e ossa che fanno il bello e il cattivo tempo sui giornali e che contribuiscono a rendere il mondo un posto migliore. In Urla del silenzio, diretto da Roland Joffé nel 1984, il giornalista assume un tono di romanticismo diametralmente opposto da quello di partenza. In ballo c’è il salvataggio di una vita umana e porta sulle spalle tutta la solitudine precaria che la condizione dell’inviato di guerra impone. Lo sfondo è quello della Cambogia dei Khmer Rossi e la vicenda quella di Sidney Schanberg, corrispondente da Phnom Penh per il New York Times che mette tutti i suoi sforzi nel tentativo di salvare il collega cambogiano Dith Pran, che lo aveva accompagnato come interprete, dalla furia assassina della tirannia. Joffé riprende in parte uno scenario già dipinto da Peter Weir in Un anno vissuto pericolosamente, cavalcando la nuova passione per la storia vera, che da qui in poi assume un significato enfatico.
Nel corso degli anni Novanta i filoni si mischiano e il giornalista eroe si sovrappone al cialtrone con la passione per la bottiglia. Non ne esce quasi nulla di buono. È del 1997 Sesso & Potere, di Barry Levinson, con Robert De Niro e Dustin Hoffman, una delle poche pellicole a fornire una visione lucida e una tesi unidirezionale sul destino dei media. Naturalmente corrotto e assoggettato ai capricci dei potenti. Verso la fine del decennio Terry Gilliam dirige Johnny Depp e Benicio Del Toro in Paura e delirio a Las Vegas, fotografando il perfetto connubio tra genio e pazzia. C’è da dire che il dottor Hunter S. Thompson aveva già fatto molto del suo nel tracciare i contorni del personaggio, lasciando all’interpretazione di Depp ben poco spazio di improvvisazione. Non è la prima volta che la vita del dottor Thompson viene romanzata, il primo a vestire i suoi panni era stato Bill Murray in Where the Buffalo Roam, sfortunatamente mai distribuito in Italia, mentre negli anni Duemila si contano un paio di documentari strepitosi, buoni a fugare ogni dubbio sullo spostamento del Gonzo: Breakfast With Hunter (2003) e Gonzo: the Life and Work of Dr. Hunter S. Thompson (2008) — sto volutamente tralasciando Cronache del rum, che davvero si perde nella macchietta.
Così come nei primi anni della cinematografia moderna era facile decifrare lo stereotipo e negli anni Settanta l’eroismo faceva da liquido di contrasto per i giornalisti da film, in epoca contemporanea la vastità di temi, soggetti e suggestioni rende complicata una generalizzazione. Sicuramente la televisione ha preso la fiaccola dell’onestà a piene mani e ha fornito un sentiero da seguire: non è soltanto l’abusatissimo The Newsroom a dare l’impronta del giornalismo moderno, di cui fidarsi fino a un certo punto perché — pare — pilotato da umane passioni. La quinta stagione di The Wire, andata in onda nel 2008, ha spaccato in due tutte le premesse, risbattendo i giornalisti ancora in parte esaltati da un passato cinematografico glorioso, nei gironi della corruttibilità e del malcostume. Espediente ricalcato qualche anno dopo con il personaggio di Kate Mara in House of Cards. Di nuovo pronti a tutto, di nuovo a cavallo di un’etica non più tanto cristallina, sempre determinanti per le sorti dei potenti.
Il cinema è un terreno sconfinato, però vale la pena citare L’inventore di favole, che racconta la storia di Stephen Glass , penna di punta del New Republic che ben presto si rivela un mitomane, e Zodiac di David Fincher e la rimbalzante interpretazione di Robert Downey Jr., reporter ossessivo all’inseguimento di un serial killer che guarda caso a un certo punto finisce per annegare le sue manie nell’alcol. Negli ultimi anni il giornalismo al cinema si è fatto finzionale, dichiaratamente spettacolare e con tratti di grottesco. Ha assunto una sorta di profilo da intrattenimento, pur con le pretese di mettere sempre in scena vicende reali e mantenendo quelle atmosfere operose da redazione intrisa del suono delle telescriventi che ormai ha poca attinenza con la realtà. Il personaggio del reporter si è alleggerito, ha perso gran parte della sua poesia e del suo carico di responsabilità. Si è forse allontanato dal reale quanto basta da rendere difficile esprimere un giudizio sull’impatto che il vero giornalismo ha sul pubblico. O forse, più semplicemente, riflette quella perdita di credibilità e quella ambiguità che la professione sta subendo man mano che i vettori si moltiplicano e il mestiere si diluisce con il rischio di diventare universale.
La televisione, come capita sempre più di frequente, è capace di tenere il punto e assolve alla funzione che per cinquant’anni è stata del grande schermo: riporta agli occhi del pubblico quello che il pubblico pensa. E lo fa con perizia, astuzia e determinazione. Tutte doti che dovrebbe possedere un ottimo reporter.