A un certo punto la celebrità Riggan Thomson, che ha fatto miliardi e si è fatta un nome interpretando un supereroe conosciuto come “Birdman” e che qui porta il volto di Michael Keaton, allunga al quasi-collega Mike Shiner — Edward Norton — un tovagliolo di carta piuttosto datato, che porta la dedica autografa di Raymond Carver. «Era a una recita scolastica. È stato grazie a lui che ho deciso di fare l’attore», racconta Thomson con la voce rotta dall’emozione e dalla fatica dopo l’ennesima prova di uno spettacolo teatrale da lui adattato e diretto, che dovrebbe rilanciarlo come stella di Broadway, tratto proprio da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, di Carver. Shiner posa lo sguardo sul tovagliolo per un attimo: «È il tovagliolo di un bar, era ubriaco fradicio». Carver era ubriaco fradicio. Questo è un luogo comune.
A un certo punto la figura graziosa e incredibilmente attraente di Sam Thomson, che qui si avvolge nell’indubbia sensualità di Emma Stone, incitata dallo Shiner/Norton di cui sopra, appollaiata in una posa che ricorda vagamente la Catwoman depressa di Tim Burton, sputa sulla testa di un avventore pelato che cammina qualche piano sotto di lei, nei pressi del St. James Theater, sulla quarantaquattresima strada di Manhattan. Sam è la figlia di Riggan e gli fa da assistente, ma è piuttosto ribelle e stanca, provata da una recente riabilitazione in seguito a un uso sconsiderato di stupefacenti non meglio definiti. Suo padre non c’è mai stato per vederla crescere, non le ha insegnato niente della vita, impegnato com’era ad accumulare assegni a vari zeri nel suo costume di piume di lattice e lei, da brava figlia trascurata, l’ha presa per com’era, fino a che lui, dopo avere sperperato tutto ed essersi separato dalla moglie — naturalmente tradita — non si è accorto del problema e l’ha ripvoluta con se. Sam finirà per baciare Mike. Riggan la sua ex moglie. Si spezzeranno le coppie e tutto si rimescolerà nel più sereno dei destini. Questi sono luoghi comuni.
A un certo punto la critica teatrale senza scrupoli del New York Times che, per disprezzo verso l’uomo-uccello, aveva giurato di stroncare lo spettacolo della rivalsa di Thomson/Keaton, si alza dalla poltroncina e va a scrivere di aver assistito a un miracolo. Davanti a lei la finzione si è mescolata con l’umanità e il sangue — «che da tempo mancava al teatro americano» — ha cominciato a scorrere. Tutto è perdonato, persino il fatto di avere tradito la professione con ruoli da giullare mascherato per tre film e poi di avere rifiutato il quarto, solo per tornare ad avanzare pretese su una Broadway disgustata. Questo è un luogo comune.
Tutto si snoda nell’illusione di un continuo piano-sequenza, in sezioni molto lunghe e ben orchestrate. Spostamenti di macchina continui e scarti su frasi di poca importanza, falsi piani, illusioni ottiche e un frammento di inferno a effetti speciali. Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) è un potenziale capolavoro costruito sui luoghi comuni. Il rischio della critica è quello di impigliarsi nelle trappole della trama e perdersi la meraviglia dietro l’intreccio. Leggere la banalità ed esaltarla senza apparente motivo — come in qualche caso italiano — oppure analizzarla fino a ridurla a unico motore della pellicola — come in qualche caso americano.
Il trucco, se c’è, è quello di spostare il fuoco dalla scena ai singoli personaggi. Riggan Thomson è chiaramente costruito sul proprio interprete: un attore alla ribalta per il ruolo di un supereroe, che rifiuta di girare il quarto film della saga e che per un po’ di tempo sparisce, prima di cercare di rilanciarsi come artista impegnato. C’è della meta-auto-critica alla stessa opera di Alejandro Iñárritu, che mette in pellicola il dietro-dietro le quinte di uno spettacolo teatrale e si occupa della psicologia dei personaggi senza preoccuparsi di cambiare il tono tra quello che è il film, vale a dire quello che succede nei bar, per le strade e nei camerini, e quello che nel film accade in scena. Carver, o l’adattamento del suo adattamento, scorre fuori dalle bocche degli attori che calcano il palco del St. James come il prolungamento naturale dei dialoghi, tradendo la vera natura dell’opera. Che si tratti di ironia, meta-ronia o disillusione, difficile a dirsi. È un gioco per tentativi, per scarti improvvisi, per deviazioni che ricordano quelle della macchina da presa appena prima di soffermarsi troppo a lungo su un dialogo non fondamentale. La condanna al continuo movimento cui sono costretti gli attori, proprio come in teatro. A conti fatti, quello che pensano o le conclusioni alle quali i personaggi giungono, conta molto poco di fronte all’importanza del personaggio stesso e al suo significato attraverso l’interpretazione dell’attore che gli dà forma.
«Risposte banali a domande complesse, giustificate da un cast impressionante», ha scritto Richard Brody sul New Yorker. Può darsi, se ci si ferma a dare retta alle risposte che ogni personaggio dà alla propria condizione, sempre più o meno compromessa: Thomson non potrà che cedere alla sua pazzia e dare retta alla voce di Birdman che esiste solo nella sua testa per affermarsi come attore, Shiner dovrà ammettere la sua debolezza come uomo fuori dal palcoscenico per combattere la sua impotenza e inseguire un’erezione portentosa per esorcizzarla, Sam dovrà cedere a se stessa per lasciarsi il passato alle spalle, tradotto in tanti trattini su un rotolo di carta igienica quanti sono gli anni della Terra. Ma se si lascia perdere la caccia all’insegnamento, la pretesa che un film possa contenere le risposte alle domande fondamentali e si accetta che in fondo Birdman non dia alcuna soluzione agli intrichi vitali dei suoi personaggi, allora si può guardare il film per quello che è: un’incredibile prova di regia e di interpretazione.
Alla fine di tutto i grandi interrogativi rimangono aperti, ma a chiudersi è l’infinito ciclo scambi, battute e dialoghi, cambi di scena, voli immaginari e reali corse in taxi, almeno due baci risolutivi e un bacio compromettente, supereroi la cui voce ricorda quella di altri supereroi e spettacoli potenzialmente perfetti. Michael Keaton, Edward Norton, Emma Stone, ma anche Zach Galifianakis, Naomi Watts, Amy Ryan e Andrea Riseborough. La loro presenza grandiosa che, proprio come in un racconto di Carver, da sola assolve qualche buco di ragionamento.
È probabile che tutto si riduca a questo: non è nella storia che va cercata la sincerità ma nella vera e propria onestà degli attori. Come per Carver, Iñárritu non delega i dialoghi il senso del suo film, ma lascia che scorrano le interpretazioni e affida al realismo tutto quello che gli spettatori decidono di trovarci. Dopo aver visto il film ognuno avrà la sua idea di come sono andate realmente le cose, ciascuno troverà le proprie risposte. Thomson sarà per alcuni capace di volare e dotato di poteri telecinetici e per altri semplicemente fuori di testa (ignoranza, appunto, intesa come mancata conoscenza). Quale che sia l’interpretazione personale di ciascuno degli spettatori, quella sarà la verità. E rimarrà incollata alle retine per mezzo di un cast straordinario.