«L’identità della misteriosa Elena Ferrante», scriveva sbagliandosi un paio di giorni fa il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi su Internazionale , «è una delle poche pagine di interesse giornalistico della nostra letteratura». Sbagliandosi, sì, perché il suo attacco sarebbe stato più azzeccato se avesse avuto il coraggio di invertire un paio di termini e dire, senza paura, che il dibattito sull’identità della misteriosa Elena Ferrante è semplicemente una delle poche pagine di interesse letterario del nostro giornalismo.
Il dibattito sull’identità della misteriosa Elena Ferrante è semplicemente una delle poche pagine di interesse letterario del nostro giornalismo
È nel 2011 che Elena Ferrante pone la prima pietra di quello che ora ci porta a essere interessati a lei: scrive il primo libro della serie dell’Amica geniale, una tetralogia che si è fatta strada a discreta velocità tra i comodini degli italiani — delle italiane, soprattutto — sempre senza nessuna presentazione.
L’unica cosa che ormai sappiamo tutti benissimo è che Elena Ferrante ha deciso di restare un nome sulla copertina dei suoi libri, scegliendo, come molti altri prima di lei e come molti altri sceglieranno sicuramente anche dopo di lei, la strada della scrittura sotto pseudonimo. A levarci dall’inghippo di decidere se fosse o meno una trovata pubblicitaria basta la sua storia di narratrice, una storia piuttosto viva che parla di copie vendute, premi — vinti o persi non importa — e tanti lettori: copie, premi e lettori che aveva anche prima che tutti ci lambiccassimo il cervello per capire se dietro quelle 1630 pagine (le ha contate Roberto Casalini di Wired) ci fosse o meno l’ombra ingombrante di Francesco Piccolo, di Domenico Starnone o di sua moglie o, ancora, di un professore genovese.
Quelle copie, quei premi, quei film ispirati dai suoi libri, una buona parte delle sue lettrici e dei suoi lettori, Elena Ferrante ce li aveva anche prima del 21 gennaio 2013, giorno in cui uscì un articolo sul settimanale nel quale ognuno degli scrittori che popola il mondo e che lo ha popolato negli ultimi decenni vorrebbe finire, il New Yorker.
Cos’è cambiato da quel giorno? Non molto in verità. Il successo negli Stati Uniti se l’era costruito prima (non arrivi ad avere un articolo sul New Yorker se un giornalista americano in vacanza a Napoli raccatta il tuo libro in una bancarella di piazza Dante), molti dei lettori italiani li aveva già e una candidatura al Premio Strega anche. Quello che è cambiato è che, improvvisamente, tutti volevano sapere chi era a nascondersi dietro quel nome e cognome così pacifico.
Queste sono le basi da cui siamo partiti per arrivare a questa settimana, quando nella testa di Roberto Saviano si è fatta largo un’idea: “la candido al Premio Strega”. E l’ha candidata. Ha scritto una lunga lettera pubblicata su Repubblica destinata alla Ferrante in cui, nell’ordine: dichiarava di non aver mai nutrito alcuna curiosità sulla sua vera identità, si dichiarava suo lettore da tempo (salvo sbagliare il titolo del libro che voleva candidare allo Strega, che non è L’amica geniale, ma Storia della bambina perduta) e le chiedeva il permesso di poterla candidare a quel premio.
Insieme alla preghiera di accettare, Saviano ha aggiunto una piccola polemica contro il premio Strega. La solita, vecchia, inutile, noiosa polemica sul fatto che sia una sfida di potere. Sì, lo è, ma o smettiamo di occuparcene e diamo spazio ad altri premi, che ci sono e sono buoni, oppure possiamo anche evitarci la replica del copione ogni anno. In chiusa Saviano ha chiesto aiuto, perché per le regole serve un secondo Amico della domenica per candidare un libro al premio.
Il giorno dopo è stato divertente: mentre la Elena Ferrante originale si prendeva la briga di rispondere a Saviano, sempre sulle pagine di Repubblica, per accettare la candidatura — ribadendo il sacro concetto del “che bisogno c’è di chiedere, una volta che il libro è stampato ha vita sua” — mentre Serena Dandini decideva di diventare la sua seconda Amica per lo Strega, il Secolo XIX di Genova e il Mattino di Napoli decidevano di mettersi in mezzo. Il primo con una brutta, ma legittima, intervista immaginaria di Marco Cubeddu. Il secondo con una brutta, e illegittima, lettera inventata spacciata per ritrovata, quindi per forse vera.
Mentre l’ufficio stampa di edizioni e/o si metteva a compilare comunicati stampa in cui ribadiva la non veridicità della lettera e dell’intervista immaginaria — che però già si smentiva da sola — Caterina Soffici del Fatto Quotidiano si metteva al computer e scriveva una seconda lettera, apparsa poi sul Fatto, fingendo senza nemmeno nascondere il sorriso, di averla trovata “per caso”, facendo scrivere l’ennesimo comunicato al povero ufficio stampa di Edizioni e/o, a cui poi lo stesso Fatto Quotidiano ha replicato, invocando una sfida a duello a colpi di trombone.
Intanto che si inventavano le lettere, intanto che si immaginava di intervistarla, intanto che venivano compilati, in serie, i comunicati stampa, si è sparsa voce che dovesse essere cambiato il regolamento per permettere a Elena Ferrante di partecipare, ma su questo punto si possono nutrire tre dubbi. Il primo dovuto al fatto che Elena Ferrante ha già partecipato al premio Strega e che quindi non si capisce perché nel 1993 potesse e ora no. Il secondo perché nel regolamento storico non pare esserci scritto alcun riferimento agli pseudonimi . Il terzo perché nemmeno nel comunicato stampa che annuncia le novità si parla di cavilli di firme e pseudonimi.
Le pagine di interesse giornalistico della nostra letteratura in questo momento sono altre
Per ora il Ferrantegate ci ha fatto spendere un sacco di tempo a ragionare e a fantasticare, piuttosto che a leggere, cosa che sembra sempre l’ultimo degli interessi in gioco, in Italia, quando si parla di libri. Perché — e non lo ricordiamo al bravo Marino Sinibaldi, perché lo sa benissimo — le pagine di interesse giornalistico della nostra letteratura in questo momento sono altre: è l’operazione Mondadori-Rcs, che potrebbe concentrare nella mani di un gruppo solo, Mondadori, il 40 per cento del mercato librario; è la concentrazione della distribuzione nella mani della sola Messaggerie Libri, che ha comprato da pochi mesi PDE da Feltrinelli; è una legge sugli sconti — la Legge Levi — che va fatta evolvere verso le sue cugine europee perché serva effettivamente a salvaguardare il mercato e la bibliodiversità, ma soprattutto sono i libri, quei libri che più di metà degli italiani usano ormai, quando va bene, per tenere in equilibrio i tavoli.