Riportare la guerra a casa

Riportare la guerra a casa

Uno si arruola perché ha perso il lavoro, un altro perché la ragazza che doveva sposare ha cambiato idea, un altro ancora perché non ha i soldi per studiare e non sa che altro fare. Poi finiscono per essere addestrati in fanteria — la gente che non ha alternative non fa l’elicotterista o il guastatore — e capitano in posti che a ogni turno diventano più brutti, più pericolosi, più compromessi. Missioni di cui non sanno quasi niente se non che possono finire in due modi: bene o male. E non è quel genere di bene o male a cui pensa chi non ci è mai stato. «A sentire gli elogi funebri, la guerra sembra sempre di più una casualità», scriveva David Finkel sul New Yorker. Tornare o non tornare per una serie di svolte che non somigliano nemmeno lontanamente a decisioni prese, quanto a decisioni imposte. E spesso tornare a casa non ha nulla a che vedere con quello che pensavano fosse “tornare a casa”, ma è solo un’altra scelta calata dall’alto della quale quasi nessuno sa più che farsi. Uno spazio grigio tra due turni, che non riposa né tranquillizza ma che si acquatta in agguato, più inquietante della guerra stessa. Dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Siria.

La guerra moderna deve necessariamente fare i conti con i rientri, duri quanto i turni di servizio. Più di due milioni e mezzo di americani, tra i diciotto e i ventisette anni, hanno combattuto in Iraq e in Afghanistan. Una percentuale importante di coloro che sono tornati accusa, a vari livelli, forme di Sindrome da Stress Post Traumatico: dolori fantasma, terrore notturno, depressione, tendenze suicide, incapacità a riadattarsi alla vita civile. È qualcosa di cui l’umanità che non ha mai combattuto si è accorta con prepotenza solo di recente, dopo che il Vietnam è passato per fare piazza pulita di tutti i sentimenti di eroismo e gli slanci patriottici, ma è sempre esistita. Correva attraverso i farmaci morfino-simili nelle trincee della Prima Guerra Mondiale e nelle membra di chi portava con sé la visione dei campi di concentramento tedeschi nella metà degli anni Quaranta. Il Vietnam è esploso come un proiettile a frammentazione, intaccando tutto di un colore brillante impossibile da lavare via. Prima sono venute le foto, poi le testimonianze di chi tornava indietro ma in realtà non si era mai spostato da My Lai, Hue, Na Trang. E allora ha cominciato ad affiorare un nuovo fronte interno, subdolo perché intangibile, costruito sui ricordi e sulle nevrosi.

Secondo le stime del Department of Veterans Affairs per il 2014, più del trenta percento dei soldati che hanno prestato servizio in Vietnam ancora in vita soffre di Ptsd, così come il dodici percento di chi ha servito durante l’operazione “Desert Storm”, tra il 1990 e il 1991 in Iraq, e circa il venti percento dei reduci delle operazioni “Iraqi Freedom” e “Enduring Freedom”, in Iraq e Afghanistan, tra il 2003 e il 2011. Al netto dei mutilati, dei paralizzati e di chi ha perso la vista, il Ptsd è la forma di ferita invalidante più diffusa. È cambiato il modo di combattere, sono cambiati gli armamenti e i fronti si sono fatti più mobili, ma non è cambiato quello che la guerra fa alle persone che ci si trovano in mezzo. Sono cambiate le età di chi parte volontario per un conflitto: oggi, rispetto al Vietnam e la Corea, si stima che l’età media dei combattenti occidentali sia superiore, ma soltanto di pochi anni. Sono cambiate le necessità e gli addestramenti. Sono cambiati i nemici. Non sono cambiati gli incubi, le paranoie e la voglia ruggente di dimenticarsi cos’è un turno di servizio.

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Man mano che la “sindrome del rientro” si faceva largo nelle famiglie e tra gli amici dei reduci, ha cominciato a essere concepita come una conseguenza comune e attesa, quasi calcolata, tra i rischi dell’economia bellica. La quotidianità è stata man mano influenzata dalle vite di chi riportava i suoi incubi a casa. Basti pensare alle grandi manifestazioni pacifiste che verso la fine degli anni Sessanta hanno preso a ruotare attorno ai discorsi colmi di rabbia dei veterani e al cinema che negli anni Ottanta ha cominciato a raccontare una guerra diversa rispetto a quella dei film di John Wayne sul fronte del Pacifico. I soldati non erano più eroi, ma vittime quasi del tutto impotenti di una macchina infernale che li trattava come carne da macello. È probabilmente inutile citare Nato il quattro luglio, di Oliver Stone del 1989, tratto dall’autobiografia dell’attivista Ron Kovic, che tratta la disillusione e la disperazione di chi ha dovuto subire il conflitto e ha perso ben più che l’uso delle gambe. Ancora più al largo nel mare in tempesta della disperazione va Michael Cimino con Il cacciatore, del 1978, precludendo le coste tranquille della sanità mentale ai suoi protagonisti. Nel caso del Vietnam, poi, la testimonianza giornalistica è senz’altro più potente e significativa rispetto al racconto romanzato: Eravamo giovani in Vietnam, di Hal Moore e Joseph Galloway (Piemme, 2005) e Dispacci, di Michael Herr (Alet, 2005 e BUR, 2008), sono due ritratti incredibilmente crudi, in grado di dare con precisione i contorni del dramma. Nel libro di Moore e Galloway, in cui si racconta attraverso le voci dei soldati americani e vietnamiti la vicenda della battaglia di Ya Drang, la continua ripetizione di un’operazione compromessa, il continuo tornare sui propri passi e ripetere gli stessi errori mortali non può che ricordare la ripetitività dei vaneggiamenti dei reduci affetti da Ptsd. Il tormentarsi che deriva da un tormento esterno, superiore, impossibile da azzittire.

Per molto tempo i disturbi da stress post traumatico sono rimasti in posizione marginale nel bilancio bellico. In fondo chi ne soffre è ancora in vita e, con un po’ di fortuna, è ancora in grado di camminare sulle sue gambe, ha entrambi gli occhi e può mangiare con la sua bocca. Non è morto né disperso: in pratica non è una perdita. Il cinema e la letteratura hanno un valore nei confronti delle tragedie reali, ed è quella di fornire una dimensione del problema, meglio di qualsiasi stima e statistica, specie se proveniente da fonti militari. La quantità di film retrospettivi e critici riguardo il Vietnam tracciano bene i contorni del dramma, ma anche il silenzio che ha fatto seguito alla prima guerra del Golfo. Lo stordimento e l’incredulità di fronte a un nuovo conflitto molto lontano e difficilmente comprensibile che ha lasciato gli americani con poche parole e molto tempo per riflettere sopra l’opportunità di nuovi interventi.

Phil Klay ha prestato servizio durante l’operazione “Iraqi Freedom”, in due turni tra il 2007 e il 2008, nella provincia di Anbar. Era un Marine, arruolato nel 2005. Non ha mai scritto mentre si trovava al fronte e non sapeva che lo avrebbe fatto una volta tornato a casa. Sapeva che gli piaceva leggere e che avrebbe voluto finire un libro prima o poi, ma non aveva idea che sarebbe stato sulla guerra. Inconsciamente appuntava i volti, i nomi e le storie di chi si trovava attorno. Dei compagni impegnati nelle missioni “porta a porta”, dei medici e dei cappellani. La violenza delle tempeste di sabbia e tutto quello in cui la guerra aveva il potere di trasformare le persone. «Ognuno porta con sé un pezzettino di guerra, e quel pezzettino non prende forma solo dal periodo passato in Iraq, ma soprattutto da quello che si è fatto. Ognuno di noi ha visto una guerra diversa. Cosa vuol dire per un artigliere non sapere mai che faccia hanno quelli che hai ucciso? E per un cappellano, che invece deve guardare negli occhi i cadaveri che hanno fatto altri? Ognuno di noi ha il suo pezzettino e se lo porta a casa», è essenzialmente quello che poi sarebbe finito in Redeployment nel 2014 (in Italia nel maggio 2015, per Einaudi, tradotto da Silvia Pereschi): un modo per esorcizzare quell’angoscia che per tanti sarebbe impossibile anche soltanto da spiegare.

Più ancora del vuoto immenso che è il resto della vita dopo il rientro, a togliere il fiato sono le poche settimane di permesso festivo o di permesso premio, che i soldati spesso e volentieri sognano come un regalo e vivono come una condanna. La minaccia di tornare a combattere, trovandosi inaspettatamente al centro di una finestra di normalità insulsa, inutile perché troppo breve e non definitiva, si trasforma in una speranza nella maggior parte dei casi. È il tuo giorno, Billy Lynn! di Ben Fountain (minimum fax, 2013 tradotto da Martina Testa) si incunea dentro un permesso premio e lo sviscera per lasciarlo nudo di fronte all’evidenza che alla fine ripartire o disertare è la stessa cosa, per chi si è fatto stordire dal combattimento con la scusa di essere un eroe e vive ogni momento nella consapevolezza di essere precario. Oggi qui e domani là, oggi in pace e domani in guerra, oggi vivo e domani morto.

Billy è come tutti: giovane, confuso, allenato e infilato a forza in una divisa. Non sa cosa vuole e l’esercito è pronto a risolvergli le incertezze, togliendogli l’onere di pensare. Dove Fountain coglie il punto, in quell’incredulità ebete di un soldato che si ferma per cercare di riconoscere la sua immagine riflessa in una vetrina, manca del tutto l’obbiettivo Clint Eastwood con American Sniper, nelle sale a gennaio 2015. Non basta accennare al Ptsd per convincere dell’esistenza di un disturbo che divora a grandi morsi l’esistenza di chi ne è affetto. E l’eroismo non è che un effetto secondario, il più delle volte trascurabile. Concetto che emerge da un altro agghicciante capolavoro del 2007, Nella valle di Elah, per la regia di Paul Haggis.

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Il termine “Hurt Locker” vuol dire tante cose: è un contenitore in cui gli effetti personali di un militare morto in combattimento vengono conservati per essere restituiti ai familiari, è una missione particolarmente spinosa nella quale si sa come si entra ma non si sa come se ne uscirà, è un posto poco consigliabile, è una ferita parecchio rognosa, come quella da scheggia di un’esplosione. The Hurt Locker, di Kathryn Bigelow del 2008 e vincitore di sei premi Oscar, tra cui miglior regia e miglior film, è probabilmente la pellicola che meglio è stata in grado di raccontare la brutalità del secondo conflitto del Golfo e le conseguenze strazianti che ha avuto sui soldati americani al fronte. Riesce a portare sullo schermo contemporaneamente tutta la preparazione tattica e la perizia che la guerra moderna richiede, assieme all’evidenza indiscutibile che non c’è soldato abbastanza addestrato da uscirne incolume.

Chi parte, chi torna e chi resta. Tutti, grazie anche al cinema e alla letteratura, stanno imparando a fare i conti con la guerra, che non è mai abbastanza distante da essere invisibile. È come il soldato che in Hamburger Hill — di John Irvin, che raccontava l’assedio alla collina 937 nell’ambito dell’operazione “Apache Snow”, Vietnam, 1969 — una volta congedato voleva girare per le strade della sua città in anfibi e medaglie. Ridicolo e impossibile da evitare, ingiustificabile e fatale, la scomoda evidenza che c’è qualcosa che non va e non è molto lontano da qui.