Murakami Haruki, che nella sua vita tra gli altri ha tradotto Carver, Salinger e Fitzgerald, ha scritto le prime pagine di Ascolta la canzone del vento in inglese e poi le ha tradotte in giapponese. «Volevo vedere come sarebbero venute», ha detto. Era il 1979 e la necessità di Murakami che quelle pagine suonassero bene metteva sulla carta la consapevolezza che lui sarebbe stato uno dei pochi. Il tre percento è un specie di club molto esclusivo, che copre tutto il mondo non anglosassone ma nel quale è estremamente difficile essere ammessi. Le regole le fa il più influente mercato editoriale del mondo e tra i suoi membri si contano Italo Calvino, Orhan Pamuk, Stieg Larsson, Umberto Eco, diversi premi Nobel e qualche fortunato che spera di infilarsi con destrezza nelle falle del sistema senza rimanerne schiacciato. Il tre percento, che tradizionalmente rappresenta la percentuale di libri tradotti per il mercato anglosassone, in particolare per il mastodonte editoriale americano, è un portone di piombo a discesa rapida, una specie di ghigliottina inconsapevole tra la pubblicazione locale e il trionfo mondiale.
C’è da dire che i numeri potrebbero essere cambiati ultimamente. Entrando in diverse librerie di New York — che qui rappresenta il centro gravitazionale della letteratura globale — da circa un anno a questa parte, mi sono accorto di uno strano fiorire a gruppetti di nomi che non suonano molto americani e che fanno presagire a un momentaneo innamoramento per la letteratura in traduzione. Momentaneo, perché gli americani funzionano così. Innamoramento, perché se da una parte l’industria editoriale è una macchina a ingranaggi ben oliati e perfettamente coordinati, il pubblico lettore risponde a passioni volubili e imprevedibili. “Effetto Elena Ferrante” è il termine più usato per definire la moda di comprare libri esotici. Va bene finché dura. Le traduzioni, comunque, continuano a coprire una fetta misera del mercato e la maggior parte dei libri tradotti resta a popolare uno spazio di intercapedine tra i grandi classici e i nomi di editori quasi sconosciuti. Una nicchia per intenditori.
Per essere considerati nel mercato editoriale americano bisogna come minimo vincere un Nobel
La letteratura è materiale di intrattenimento, per gli americani — e forse dovrebbe esserlo in generale — e lo sforzo di comprensione del diverso non è qualcosa che il lettore medio concepisca come implicito nell’esercizio di lettura. Nel 2013 sono stati pubblicati dagli editori tradizionali più di sessantamila titoli di fiction, dei quali soltanto cinquecentoventiquattro in traduzione. Ammettiamo che il 2014 sia stato un anno più florido grazie all’“Effetto Ferrante”, ma la proporzione rimane sconsideratamente sbilanciata. In un articolo apparso sul New Yorker lo scorso anno che prendeva spunto dall’evidenza che per essere considerati nel mercato editoriale americano bisogna come minimo vincere un Nobel, Vauhini Vara ha rilevato che se l’anticipo per un libro di un autore americano generalmente è a quattro, cinque, persino sei zeri, quello per un libro in traduzione di solito non supera i cinquemila dollari. E le vendite, proporzionalmente, non vanno oltre le cinquemila copie. «Devo considerare varie cose nella scelta di un autore non americano — ha detto Paul Bogaards, vice presidente di Knopf, a Vara — prima di tutto: Parla inglese? Come starebbe sulla copertina di una rivista patinata? Vincerà mai un Nobel?», e questo mette più o meno un punto al problema delle traduzioni sui grossi editori.
Qualche mese fa, Michael Reynolds, editor di Europa Editions — piccolo editore che ha pubblicato negli Stati Uniti Elena Ferrante e che prima ancora aveva azzeccato lo scaffale con L’eleganza del riccio, di Mauriel Barbery —, cercava di spiegarmi come funzionano certi casi editoriali e di mettere da parte lo snobismo di partenza. «Se un libro è buono, vende. Bisogna superare il mito del timore che il lettore americano ha per le traduzioni e considerare che se gli si dà in mano un prodotto di valore, lo apprezzerà. Lo snobismo va bene per New York o San Francisco, il resto degli Stati Uniti legge quello che gli piace, non importa da dove venga». È un buon ragionamento, ma non mi convince fino in fondo. Quello che penso è che gli americani vadano sempre a caccia dell’autenticità, che non siano refrattari a quanto proviene da fuori confine, ma abbiano bisogno di qualcosa che non richieda troppe spiegazioni per essere compreso e assunto come “reale”, “autentico”. Elena Ferrante, per qualche motivo, e Klaus Knausgaard, che ha riempito gli scaffali più o meno nello stesso periodo, hanno spezzato una piccola barriera, hanno saltato uno steccato ma non hanno ancora aperto una breccia nella cortina divisoria tra le traduzioni e il gusto dei lettori americani.
Fatta eccezione per Farrar, Straus & Giroux, storico editore con un fiuto particolare per i Nobel, e la giù citata Knopf, le traduzioni restano materiale da piccolo editore: Europa, Seagull, Dalkey, Archipelago. Esistono, forse coprono più di quel tre percento cui sono tradizionalmente relegate, ma difficilmente arrivano ad attirare l’attenzione di chi non se le va a cercare. «È complicato prevedere il destino di un libro in traduzione — mi ha detto una volta Mitzi Angel, editor di FSG — noi cerchiamo di farne, ma innanzitutto siamo sempre più attratti dal numero incredibile di proposte in inglese e poi dobbiamo affidarci ai gusti dei lettori in un dato periodo. Probabilmente questo è un momento buono per l’Italia». Volubili, esigenti e imprevedibili: non è facile essere il pubblico di lettori più grande del mondo.
Oltretutto, in Italia diamo per scontata una certa abilità nella traduzione e l’esistenza implicita del mestiere del traduttore nel panorama industriale, ma nel mondo anglosassone le cose non vanno così lisce. Bisogna innanzitutto poter contare su scout, consulenti ed editor che conoscano la lingua e poi su traduttori abbastanza abili da renderla in maniera efficace. Se la traduzione è sempre un tradimento, c’è chi vorrebbe tradire ma non può e chi in vita sua non è mai stato fedele. «Le traduzioni costano parecchio — ha detto Chad Post, editore di Open Letter, a Vara — e poi c’è da considerare una campagna di marketing mirato, per cui di solito noi piccole case editrici non abbiamo abbastanza fondi». Tradurre bene e poi convincere, insomma. Mica semplice.
Se la traduzione è sempre un tradimento, c’è chi vorrebbe tradire ma non può e chi in vita sua non è mai stato fedele
C’è un sito fondamentale per chi volesse mettere alla prova l’editoria americana sul problema delle traduzioni e, neanche a farlo apposta, si chiama Three Percent. Scorrendo il catalogo dei libri stranieri pubblicati nel 2014 — all’indomani di quella che io chiamo “La voragine infame” che passa tra Eco e la Ferrante — mi sono imbattuto in una ventina di titoli italiani. Camilleri, Carlotto, Calvino, Malvaldi e poi altri che devo ammettere di non aver mai sentito nominare. I traduttori sono più o meno sempre gli stessi, gli editori pure. Non posso fare a meno di immaginarmeli tesi, pronti a partire alla rincorsa del nuovo grande innamoramento globale. Della scoperta che li catapulterà sull’orlo della ribalta a giocarsi il tutto per tutto. Su IL del Sole 24 Ore è apparso un bell’articolo di Marco Rossari — traduttore fenomenale — che spiega come «Tradurre sia rincorrere le parole», citando a sua volta Massimo Bocchiola. Ecco, tradurre negli Stati Uniti può significare inseguire la fortuna, il momento, la voce del popolo senza mai averla sentita prima. Può significare imporre un nuovo trend o coltivarne uno appena accennato. Probabilmente il problema più grande che esiste per i titoli stranieri in America è quello di rompere il ghiaccio in una lingua che non gli appartiene, ma che se si vuole sfondare, bisogna imparare per forza.