Allora, da una parte c’era Céline e dall’altra Kerouac. Avevo diciotto anni, o giù di lì, ed erano due cose distinte nettamente, separate da un oceano di convinzioni agli antipodi. Di là il fascista, filo-hitleriano, antisemita, collaborazionista e vile, di qui il poeta della libertà, il bardo anarchico e romantico, l’incarnazione del sogno vagabondo americano, lo sperimentatore visionario in grado di partorire capolavori di getto per tornare alle sue scorribande spensierate. Due ideologie, più che due uomini di lettere, due convinzioni sociali e politiche che, pensavo allora, non si sarebbero potute incontrare. Mai e poi mai. Poi, piano piano, mentre procedevo per manie monotematiche nell’esplorazione della letteratura e impilavo libri tra comodini, scaffali e camere d’albergo, mischiando il piacere al dovere e spesso confondendoli, queste due figure mastodontiche e incombenti hanno cominciato a mischiarsi: di là il medico dei poveri, ancora più romantico del vagabondo, innamorato delle donne e completamente indifferente alla vita. Poetico, stanco, rauco. Di qui l’ubriacone molesto e impetuoso, talmente convinto del proprio genio da abusarne, col piede sull’acceleratore della creatività al punto di rischiare di fondere il motore. Impossibile da chiudere in una definizione, lontano da quello che era il ribelle nelle foto in bianco e nero sul confine messicano. Sono io che invecchio, mi dicevo, ma questo miscuglio indefinito è sempre più chiaro.
Jack Kerouac è un’illusione a sedici anni, un’aspirazione a venti e una triste realtà a trenta. Quella tendenza alla fuga è una pulsione totalitaria, che può capire solo chi se la sogna di notte e che dopo un po’, ammesso di avere una vita mediamente regolare, diventa troppo faticosa per seguirla. Sulla strada (varie edizioni Mondadori, traduzione di Fernanda Pivano) si porta dietro una maledizione, quella di poter essere letto soltanto all’interno di una determinata fascia di età, per essere ricordato come il capolavoro che è. Aprirlo dopo i venticinque anni vuol dire uscirne sconfitti, senza eccezione. Questo perché è un romanzo di impulso e va colto con la stessa leggerezza di ragionamento che Kerouac ha impiegato per scriverlo. È un bluff, per metterla in termini più radicali, e la libertà di cui parla non è destinata a durare.
Jack Kerouac è un’illusione a sedici anni, un’aspirazione a venti e una triste realtà a trenta
C’è una storia che ha raccontato molto bene Jon Krakauer e ancora meglio Sean Penn dopo di lui, quella di Chris McCandless che scappa alla ricerca dell’America e degli orizzonti selvaggi per morire in maniera idiota in mezzo alle foreste dell’Alaska. Ecco, McCandless viaggiava leggendo London e Thoreau e aveva vent’anni. Se fosse partito a trenta avrebbe letto gli stessi libri in maniera differente e li avrebbe annotati con tecniche di sopravvivenza, anziché con le fantasticherie di un viaggiatore solitario. Il che non significa che avrebbe dovuto aspettare a mettersi in viaggio, oppure che non sarebbe morto per qualche altra fesseria, soltanto avrebbe visto le cose in maniera diversa. Così come chi legge Kerouac da adolescente e chi lo legge da adulto. Per capire e assorbire quella letteratura, bisogna scoprirla quando non si ha la tendenza a ragionarci troppo sopra, altrimenti si finisce per rovinarla. Se McCandless fosse partito più tardi, avrebbe evitato le foreste più fitte, salvandosi magari, ma perdendosi i paesaggi più incontaminati.
Quando Kerouac si trovava sulle pendici del monte Ozomeen e si faceva chiamare Duluoz, cercava il vuoto buddista nelle alture di fronte a lui e si specchiava nella sua solitudine. Rifletteva e pensava che altri avrebbero potuto giovare del suo isolamento. Angeli di desolazione (varie edizioni Mondadori, traduzione di Magda de Cristofaro)è un libro estremamente difficile, diametralmente opposto a Sulla strada: la prova inconfutabile che nemmeno il suo autore era immune all’effetto ideologico causato dal primo romanzo e che anche lui era destinato a invecchiare — non molto in questo caso — per vedere le convinzioni di un tempo sfumare via. Il protagonista di Angeli di desolazione è un uomo formato, maturo, a suo modo equilibrato, se si prendono gli abusi come ormai impossibili da evitare. È una persona che giudicherebbe il ragazzo/Kerouac delle peregrinazioni poetiche un pazzo furibondo. Eppure nemmeno lui è stato in grado di rivedere completamente la sua vita. Che sia storia o leggenda, l’immagine delle parole che si imprimono incessantemente su infiniti rotoli di carta rotativa, non gli appartiene più completamente. A questo punto, il suo destino è spegnersi lentamente nel ricordo di una vita impulsiva o morire all’improvviso per sua diretta conseguenza. Proprio come quello di Céline, che non avrebbe dovuto incrociare mai.
L’impulsività dei vent’anni e l’impossibilità di chiarire, ha fatto sì che attorno alla figura di Kerouac fiorisse una spessa siepe di convinzione politica, piuttosto infondata. I sentimenti di libertà, il pacifismo e il buddismo dello scrittore, erano figli di quell’immensa e vibrante pulsione anarchica che tutti prima o poi abbiamo provato, a patto di non vivere repressi in un collegio di Gesuiti. «Prima soddisfa te stesso», era uno dei suoi motti, ed è qualcosa che non può che appartenere allo spirito ribelle dell’adolescenza. La verità è che, come non è mai stato in grado — o non ha avuto il tempo — di fare a meno della madre e dell’alcolismo, Kerouac non è mai stato libero e non ha avuto l’occasione di maturare completamente, né come scrittore, né come uomo. Anzi, se avesse potuto avrebbe probabilmente sviluppato idee molto più conservatrici di quelle che gli sono state ritagliate addosso a posteriori. Angeli di desolazione, frutto delle prime riflessioni sulla vita e la scrittura iniziate con Big Sur un paio di anni prima, doveva essere semplicemente il principio dell’affermazione e ha finito per congelarlo per sempre nella figura dell’eterno ragazzo. Dello scrittore di getto allergico alle revisioni. E poi la beat, che pure ha avuto modo di rivedere se stessa con Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti soprattutto, ha finito per diventare il paradiso dei poeti sballati e scioperati, intoccabile da un punto di vista letterario, ma senza una vera ragione. Attanagliata da un grande senso di ingiustizia.
Adoro Kerouac perché l’ho letto che avevo diciotto anni e per la stessa ragione capisco chi non ci trova niente di speciale. Va filtrato con il cuore dell’impulso, altrimenti finisce per non trasmettere nulla, con la stessa benevolenza che andrebbe riservata a Céline. Perché nessuno dei due, adesso lo so, stava veramente sbagliando ed entrambi avevano le loro passioni, che vanno ben oltre le convinzioni umane.