Per il vino italiano un record pieno di incognite

Per il vino italiano un record pieno di incognite

Come sta il vino italiano? Bene grazie, a patto che si parli di quello bevuto dagli altri. Sembra la storia della bottiglia mezza piena e mezza vuota, a seconda di come si guardi. All’appuntamento kolossal del Vinitaly – ospitato come si può da Verona, obiettivamente non ancora all’altezza per quartiere fieristico e infrastrutture – ci si presenta con numeri importanti che vanno in una direzione chiara e forte: metà della produzione è destinata all’estero, siamo i primi esportatori per quantità (20,5 milioni di ettolitri, il 21% del mercato mondiale) e i secondi per valore (5,1 miliardi di euro, con circa un miliardo che arrivano a testa da Stati Uniti e Germania), nessuno ci insidia per i vini biologici viste le 45mila aziende che li producono.

Siamo i primi esportatori per quantità e i secondi per valore, nessuno ci insidia per i vini biologici. Ma andiamo avanti piano 

La parte mezza vuota? Che siamo andati avanti piano. Il nuovo record (+1,4% nel fatturato e + 0,8 nelle bottiglie) è stato sotto le aspettative che si erano create di fronte alla costante crescita degli ultimi anni. «Ma nel complesso mi sembra un buon risultato – osserva Denis Pantini, direttore dell’area agricoltura e agrindustria di Nomisma – se consideriamo che a metà anno il trend era negativo. C’è stato un recupero in zona Cesarini, compresa la Cina». La frenata del vino tricolore è stata determinata dalla crisi russa (-10,5%) e dal calo pronunciato del nostro primo mercato, la Germania (-4,4%). Secondo Nomisma ha pesato anche lo scivolone del vino sfuso (incide per il 30% sui volumi), il cui arretramento a valore (vicino al 20%) non è stato compensato né dalla crescita degli spumanti (+14%, ma pesa solo il 10% sull’export) né dai vini fermi imbottigliati, che rappresentano il 60% del nostro export.

La frenata del vino tricolore è stata determinata dalla crisi russa e dal calo del vino sfuso, non compensato dalla crescita di spumanti e dei vini fermi imbottigliati

Altri temi su cui riflettere. Non tanto il consumo interno che sta inesorabilmente scendendo (quota 35 litri all’anno procapite è in vista, cinque anni si era sui 40) a vantaggio della qualità – mai in Italia si è bevuto così bene – ma alcuni aspetti che ci fanno sentire fighi quando in realtà non ha senso. Tipo il numero di aziende: circa 380mila, il che fa tanto mercato libero ma sostanzialmente non migliora il sistema. Oppure l’esercito dei “classificati” che comprende 322 Doc, 73 Docg e 118 Igt: non pochi vorrebbero rivedere un po’ tutto in materia e in buona parte hanno ragione. E il fatto che l’esaltazione per il vino artigianale, autotocno e bio – e lasciamo da parte quelli detti “naturali” perché senza solfiti – trovi limitato riscontro all’estero. Se lo dite, ovviamente, i sostenitori vi guarderanno storto ma (per ora, poi si vedrà) sono il Prosecco, il Chianti, il Brunello di Montalcino, il Barolo, il Barbaresco, il Moscato a tenere su la baracca. Anche e soprattutto in una stagione come l’ultima dove la vendemmia è stata inferiore di quasi il 20% al 2013: le stime Assoenologi parlano di una produzione di 40 milioni di ettolitri. Magari è un vantaggio, magari no.

Abbiamo centinaia di Doc, Docg, Igt. Ma sono il Prosecco, il Chianti, il Brunello di Montalcino, il Barolo, il Barbaresco, il Moscato a tenere su la baracca

In questo consesso, ha sorpreso un rapporto del gruppo IWSR per Vinexpo, incentrato su come saranno i consumi nel 2018, ovviamente elaborando le tendenze attuali. Bene, la Germania supererà di poco l’Italia per quantità di bottiglie: 3,3 miliardi di bottiglie contro 3,28, in questo caso con un decremento del 5% rispetto a ora. Altra sorpresa: se proseguono i trend attuali, gli Stati Uniti diventeranno i bevitori number one con 4 miliardi e mezzo di bottiglie stappate, guardando dall’alto la Francia. Come dobbiamo comportarci? «Intanto penso che non dobbiamo sentirci dei fenomeni fuori casa e pessimi in casa nostra. La verità è che dobbiamo lavorare meglio in entrambi i casi – sentenzia Angelo Gaja, saggio che conosce il mondo quanto il suo Barbaresco – tutto parte dal fatto che parecchi Paesi riescono a piazzare i loro vini a prezzi più alti dei nostri. E non va bene, perché il livello medio italiano si è alzato notevolmente quindi dobbiamo trovare in un superiore margine della vendita, il sistema per alimentare l’intera filiera. Sennò non ne usciamo». 

Se vogliamo, qualche segnale importante sulla necessità di presidiare e allargare i mercati esiste: si vede la voglia di unire le forze e di non procedere in ordine sparso

Se vogliamo, qualche segnale importante sulla necessità di presidiare e allargare i mercati esiste: si vede la voglia di unire le forze e di non procedere in ordine sparso, da sempre tallone d’Achille del mondo enoico. Matrimoni – considerati contronatura anche da molti addetti ai lavori – ma in realtà lucidi e utili come quello del 2014 tra Ferrari e Bisol (Metodo Classico e Prosecco, come Milan e Inter per i non addetti ai lavori) o quello che si sta delineando in queste settimane tra Franciacorta e e Brunello di Montalcino, eccellenza rispettivmente nelle bollicine e nel rosso.

Auguri a chi crede di conquistare il globo con un vino autotocno, realizzato con il credo biologico

«Per ora ci siamo fidanzati liberamente e non perché costretti da istituzioni o da enti camerali – spiega Maurizio  Zanella, presidente del Consorzio di Franciacorta e patron di Cà del Bosco – per arrivare al matrimonio non ci deve essere collaborazione solo a parole ma anche nei fatti». L’idea è quella di sfruttare forze e competenze acquisite in una strategia comune di promozione. Le cantine dell’ente toscano sono particolarmente forti all’estero (60-70% di export) mentre Franciacorta è appena all’inizio del processo d’internazionalizzazione (10%). «Siamo così diversi per tipologia di vino – osserva Francesco Ripaccioli, produttore e vicepresidente del Consorzio del Brunello –  ma al tempo stesso simili nell’impegno costante dei produttori per un vino di qualità e per il legame con il territorio di origine». Il punto di forza su cui si baserà la strategia di questo progetto? L’unione dell’attrattività dei due brand sui mercati esteri. Chi scuote la testa o mostra il sorrisino perplesso, secondo noi, non ha ancora capito come “gira il vino”. Oppure crede di conquistare il globo con un vino autotocno, realizzato con il credo biologico, da un gruppo di eroi sull’Appennino. Prosit.

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