L’annuncio delle sue dimissioni dalla Camera dei Deputati – in cui sedeva dal 2001 – per andare a ricoprire il prestigioso incarico di direttore della prestigiosa Scuola di Affari Internazionali di Parigi, ha finito per mettere in ombra i temi della sfida culturale prima ancora che politica illustrati e discussi da Enrico Letta nel suo ultimo libro Andare insieme, andare lontano (Mondadori, pp.136, euro 18,00).
È stato gioco facile, quindi, per alcuni commentatori disegnare l’immagine del leader sconfitto e rancoroso, che preferisce abbandonare l’Italia e non dare il proprio contributo in una fase così difficile per il nostro Paese: niente di più distante dalla realtà e dal contenuto di un libro che non ha lo sguardo rivolto al passato e tanto meno vuole prendersi una rivincita postuma su chi, peraltro, lo ha fatto sloggiare da Palazzo Chigi con modi e forme che sono entrate nel linguaggio comune racchiuso nel famoso tweet #enricostaisereno.
«Prima Beppe Grillo, poi Silvio Berlusconi, infine Matteo Renzi. Ciascuno ha tentato a modo suo, di far partire i titoli di coda. L’ultimo tentativo, com’è noto, è stato quello decisivo. Buona la terza»
Non poteva, ovviamente, mancare un capitolo dedicato ai dieci mesi del suo governo – dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014 – con anche alcuni accenni autocritici; un’esperienza vissuta avendo «la precarietà come regola quotidiana, l’urgenza, la fibrillazione permanente» e come filo conduttore un assedio continuo con «spinte diverse tra loro che convergevano verso un unico obiettivo: far cadere il governo. Prima Beppe Grillo, poi Silvio Berlusconi, infine Matteo Renzi. Ciascuno ha tentato a modo suo, di far partire i titoli di coda. L’ultimo tentativo, com’è noto, è stato quello decisivo. Buona la terza».
Quella che emerge con più forza nel libro non è però il contrasto personale con Renzi, o peggio il livore, ma al contrario una profonda divergenza sugli strumenti critici necessari per analizzare la crisi italiana e sulle soluzioni per ridare slancio e vigore all’economia e al senso di comunità nazionale. Al centro della riflessione di Letta si ritrova così la cronica malattia dell’Italia «che alcuni hanno chiamato “cortotermismo”, altri – penso a Padoa Schioppa – “visione corta”, altri ancora “presentismo”». Una visione di corto respiro, che si porta come conseguenza politica l’illusione fallace che la risoluzione dei mali dell’Italia sia a portata di mano.
Quel che propone Letta, invece, è ridare il giusto valore alle parole per costruire una buona politica; parlare un linguaggio di verità agli italiani, senza scegliere la facile scorciatoia dell’uomo solo al comando, meglio se con doti di imbonitore: «La metafora della “palude” non è di certo una suggestione recente – denuncia con forza l’ex Presidente del Consiglio – Ha fatto capolino a intermittenza per decenni, ogni volta ad anticipare l’uomo nuovo di turno, che d’incanto e d’impeto avrebbe potuto guarire i mali nazionali: un’iniezione d’adrenalina e passa tutta. Com’è andata è cosa nota».
Infine, l’Europa lungi dall’essere la ragione dei nostri mali, come vorrebbero far intendere sia Grillo sia Salvini, può offrire un contributo importante e per molti versi decisivo per il superamento della crisi. Più Europa e non già meno Europa come vorrebbero i populisti nostrani e continentali, sfidando quindi con il coraggio di una visione lunga anche gli umori di una opinione pubblica spaventata dall’immigrazione e dalle difficoltà di tenuta della classe media. Ecco perché – come scrive Letta – «quando è il leader del Partito Democratico a dire che l’Europa è una massa di burocrati, allora sì il problema è serio».
«Non c’è memoria delle conquiste dell’Ulivo, di uno slancio riformista che ha visto protagonista forse la miglior classe dirigente della nostra storia»
In definitiva, il messaggio che Enrico Letta lancia al gruppo dirigente del Pd e all’Italia dopo un lungo e non comune periodo di operoso silenzio, è un segnale di allarme affinché non siano preferite le facili scorciatoie populiste al meno appariscente riformismo quotidiano, un lavoro di lunga lena e di visione lunga, guidato da un allenatore di una squadra autorevole e ambiziosa il giusto. Un approccio consapevole della complessità che contraddistingue la società contemporanea e lontano anni luce da quella che Letta definisce la «retorica dell’anno zero. C’è il ventennio che abbiamo alle spalle raccontato come se tutti fossero stati uguali, tutti indistintamente responsabili. Destra e sinistra, berlusconiani e antiberlusconiani, riformisti e conservatori, onesti e meno onesti: nessuna differenza. Non c’è, invece, la memoria delle conquiste dell’Ulivo, di uno slancio riformista che ha visto protagonista forse la miglior classe dirigente della nostra storia».