Il genocidio degli armeni all’inizio del XX secolo, avvenuto nel 1915 in concomitanza con la prima guerra mondiale, da fatto storico è diventato un caso politico e diplomatico. Ancora una volta è stato il papa, José Mario Bergoglio, a imprimere un colpo d’accelerazione su un tema controverso e delicato a livello internazionale. Questa volta a entrare in gioco sono state le relazioni con Ankara. Resta il fato che, sempre di più papa Francesco si delinea come uno dei protagonisti della scena mondiale: da Cuba, al Medio Oriente alla Turchia, Paese che per altro Bergoglio aveva visitato solo nel novembre scorso.
La celebrazione di domenica scorsa nella basilica di San Pietro, in cui papa Francesco ha sollevato con toni forti il tema dello sterminio della popolazione armena, ha suscitato reazioni dure da parte del governo di Erdogan che ha parlato di «calunnie prive di fondamento giuridico». Il riferimento del ministero degli Esteri turco è al fatto che la tragedia degli armeni, a differenza di altri eventi drammatici cui lo stesso pontefice l’ha paragonata – la Bosnia, il Ruanda, il Burundi – non è stata riconosciuta come genocidio da alcun tribunale internazionale. Una replica quella di Ankara che sembra appigliarsi soprattutto a un aspetto giuridico della vicenda non per forza secondario ma che non fa i conti fino in fondo un’ampia documentazione storica.
Il papa ha parlato del massacro di una delle più antiche comunità cristiane del mondo e lo ha messo in relazione con le uccisioni e le aggressioni contro i cristiani che avvengono oggi
Tuttavia la mossa compiuta da Francesco non è quella di uno studioso: il papa infatti ha parlato del massacro di una delle più antiche comunità cristiane del mondo e lo ha messo in relazione con le uccisioni e le aggressioni contro i cristiani che avvengono oggi in diversi Paesi e regioni del Pianeta. Non c’è dunque solo la verità storica nelle parole del papa che vanno lette in un quadro più ampio e anzi, proprio stamane, nella consueta messa di Santa Marta, Francesco ha osservato come la Chiesa abbia il dovere di «parlare con coraggio e con franchezza». Il governo turco, dopo aver convocato il nunzio apostolico ad Ankara, monsignor Antonio Lucibello per comunicargli il proprio risentimento, ha preso una secondo iniziativa richiamando l’ambasciatore presso la Santa Sede, segno di un inasprimento del confronto diplomatico.
All’orizzonte intanto c’è una scadenza importante: il prossimo 24 aprile si celebrerà infatti a Erevan, capitale dell’Armenia, il ricordo del centenario del massacro, “il Grande Male” nella tradizione armena. Nello stesso giorno, tuttavia, Erdogan ha promosso un’altra celebrazione per la ricorrenza di un altro centenario, quello della battaglia dei Dardanelli e dell’assedio di Gallipoli in cui i turchi ebbero la meglio sugli alleati nel 1915. E d’altro canto da parte turca si sostiene che lo sterminio degli armeni avvenne anche a causa della prima guerra mondiale, insomma le sue ragioni furono molteplici. Molti capi di stato e di governo in ogni caso si muoveranno verso Erevan e il tema assume sempre di più profilo allo stesso tempo storico e diplomatico.
Papa Francesco, da parte sua, ha voluto richiamare in modo esplicito, nel corso della celebrazione per il genocidio, i massacri cui sono sottoposti ogni i cristiani in tante parti del mondo, e per questo la vicenda armena sembra essere diventata il simbolo più generale delle persecuzioni contro i seguaci di Cristo in epoca contemporanea. «In diverse occasioni – ha detto Francesco nel corso della messa in memoria della strage celebrata nella basilica di San Pietro alla presenza dei leader cristiani armeni e del presidente Serzh Sargsyan – ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale “a pezzi”, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra» . Se questi sono i presupposti, non c’è da meravigliarsi che la Turchia stia protestando, Erdogan vede infatti il rischio dell’isolamento internazionale su un tema particolarmente spinoso mentre il suo Paese viene trasformato nell’esempio negativo di chi ha perseguitato popolazioni cristiane.
Le relazioni fra Santa sede e Ankara non sono mai state semplici, e ogni volta che sorgono nuovi motivi di divisione o disaccordo, la memoria corre all’attentatore turco di Wojtyla, Alì Agca
A questo si aggiunga che le relazioni fra Santa sede e Ankara non sono mai state semplici, e ogni volta che sorgono nuovi motivi di divisione o disaccordo, la memoria corre all’attentatore turco di Wojtyla, Alì Agca, a don Andrea Santoro, ucciso a Trebisonda nel 2006, al vicario apostolico per l’Anatolia, monsignor Luigi Padovese, assassinato a Iskenderun nel 2010 in circostanze mai del tutto chiarite, tuttavia dietro l’omicidio s’intravedeva la mano del nazionalismo estremista turco. A ciò si aggiunga che la piccola chiesa cattolica presente in Turchia non ha mai visto riconosciuti fino in fondo i propri diritti.
Se questo è il difficile contesto delle relazioni fra Vaticano e Turchia, allo stesso tempo va rilevato come il papa abbia coltivato invece un rapporto solido con Bartolomeo I, patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli (Istanbul), e ora anche con i leader cristiani armeni come Karekin II. L’ecumenismo, il rapporto e l’unità fra le chiese d’oriente e d’occidente, sono fra le motivazioni forti del gesto del papa che vuole compiere passi avanti decisi verso il mondo ortodosso. Il tutto avviene in un magma geopolitico in cui la Turchia è sempre più sospesa fra vocazione mediorientale e rapporto difficile con l’Europa. I negoziati con Bruxelles per l’ingresso di Ankara nell’Ue non hanno più fatto passi avanti significativi, del resto negli ultimi anni Erdogan ha messo in atto provvedimenti legislativi e politici decisamente illiberali, e così il Paese ponte fra due mondi e due continenti sembra oggi il Paese sospeso, la nazione stretta fra due opzioni mancate.