“Io, vero oste, sto alla larga da Eataly ed Expo”

“Io, vero oste, sto alla larga da Eataly ed Expo”

Gualtiero Marchesi ripete spesso – non per snobismo ma per esperienza – che «l’Italia è un paese di osti e trattorie». Il miglior ristorante d’Italia – per tutte le guide nazionali e internazionali – si chiama Osteria Francescana e si trova nel centro di Modena, non a Roma o a Venezia. Uno dei locali più spettacolari della nuova Milano, design puro sul tetto della snobbissima Triennale, è definito dai suoi creatori “Osteria con vista”. Tre indizi chiari (e potrebbero essere molti di più) fanno una prova: nell’epoca dove l’inglese regna sovrano anche nel cibo (street food, signature dish, fusion, comfort food, social eating, sharing table…), la cara vecchia Osteria tiene benissimo, anzi ha rafforzato il primato di gradimento. Vero che ai due estremi (alta cucina e locali multifunzionali) non mancano realtà validissime ma la (buona) ristorazione italica passa – e passerà sempre per noi – da queste latitudini. È che bisogna distinguere tra le osterie reali e quelle false, fra le trattorie di sostanza e quelle di immagine.

Abbiamo scelto un oste illustre e moderno per parlarne: è Paolo Reina che guida da 25 anni l’Antica Trattoria del Gallo a Gaggiano, hinterland sud-occidentale di Milano. Dal 1870 un fuoriporta amatissimo della metropoli e ben stimato dagli addetti ai lavori: è – non a caso – una delle Premiate Trattorie Italiane, gruppo di locali che si è formato lo scorso anno insieme ad Amerigo 1934 a Savigno (Bo), Antica Trattoria del Gallo a Gaggiano (Mi), Antichi Sapori a Montegrosso di Andria (Bt), Caffè la Crepa a Isola Dovarese (Cr), La Brinca a Ne di Valgraveglia (Ge) e Locanda Devetak a Savogna di Isonzo (Go). Da poco si sono unite al gruppo Trattoria Visconti di Ambivere (Bg) e La Locandiera di Bernalda (Mt)

Reina, partiamo dal concetto di Premiate, visto che il resto del brand è chiarissimo.

Ci definiamo così non per presunzione siamo premiate dal tempo, dalla storia e dalla clientela. Non siamo di tendenza, semmai da una vita sulla breccia grazie alla qualità dell’offerta e della passione che si tramanda di generazione in generazione. Al di là che cucina e cantina sono di livello noto agli appassionati,  l’elemento in comune è che ogni locale interpreta al meglio la rispettiva tradizione regionale, senza per forza trascurare il mondo.

Posti antichi, in generale.

Sì ma è un valore. Il “Gallo” è nato nel 1870, più o meno come Locanda Devetak, a quel tempo nei confini dell’Impero austro-ungarico. La famiglia Circella de La Brinca si occupa di cibo e vino dagli anni ’30, quando nacque Amerigo. E se è vero che i fratelli Malinverno, anima de “La Crepa”, hanno iniziato nel 1951, si è scoperto che lì si mescevano vini e liquori già nel 1832…

La memoria è un valore quindi.

«Io rispetto chi apre le “nuove” osterie ma non bastano i tricicli, le immagini in bianco e nero e gli utensili di rame per rievocare i sapori originali»

Assoluto. La cucina tradizionale non è solo fatta di “quelle” ricette ma di gesti, di tecniche, di strumenti. Noi utilizziamo per alcuni piatti delle pentole vecchissime, abbiamo provato modelli più recenti ma il risultato era inferiore. Io rispetto chi apre le “nuove” osterie ma non bastano i tricicli, le immagini in bianco e nero e gli utensili di rame per rievocare i sapori originali. Ci si accorge rapidamente quando una trattoria è falsa, magari ci si accontenta ma è così.

La trattoria deve essere obbligatoriamente in campagna?

«A Milano il locale fuori porta non snatura l’osteria che al contrario lungo i Navigli deve cercare il cliente»

Dipende dalle città. Sicuramente a Milano sì, la gente “sente” di dover fare qualche chilometro per un locale. E questa predisposizione diventa importante perché non snatura l’osteria che al contrario lungo i Navigli – tanto per citare una zona – deve cercare il cliente. A Roma è diverso fermo restando che il fuoriporta fa parte della cultura. In ogni caso, quasi tutti i migliori posti segnalati da Slow Food o dal Gambero Rosso non sono nelle aree metropolitane.

Si aspettava questo ritorno alle trattorie?

Ma non sono mai andate in crisi. È che in un periodo come quello iniziato otto anni fa, oste vuol dire amico e tradizione significa sicurezza. Ci si aggrappa al passato e si preferiscono le cose normali ai fuochi d’artificio. Chi non ha perso la bussola nei decenni e ovviamente non è rimasto fermo, si ritrova ancora protagonista e vede tanti altri che cercano di seguirlo.

L’osteria quindi non è sinonimo di ripetitività, quasi di vecchio.

«Utilizziamo le tecniche dei fenomeni come Adrià e Cracco, ovviamente adattate al nostro obiettivo»

Quelle valide no. Bisogna coniugare memoria e ricerca: il tiramisù del Gallo è diverso da quello che facevano dieci anni fa e figuriamoci da quello degli anni ’90 perché utilizziamo le tecniche dei fenomeni come Adrià e Cracco, ovviamente adattate al nostro obiettivo. Loro ci arrivano dieci anni prima ma noi le rendiamo perfette per modernizzare i piatti, non cambiare le ricette che è cosa ben diversa.

Tre regole per riempire i tavoli di un’osteria.

Fare le cose bene: scontato ma oggi vuol dire puntare sulla specializzazione dei piatti che paga sempre e non dimenticare chi ha problemi, non si può lasciar fuori celiaci o vegetariani anche se sei in mezzo a una valle. Ragionare sul menu perché al di là dei classici bisogna pensare a formule moderne, a piatti nuovi e precisi, ai prezzi corretti. E infine tenere sotto controllo la spesa per il cliente: per esempio, il menu della tradizione delle Premiate Trattorie Italiane – composto da antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, acqua e caffè – non deve superare i 50 euro a persona, con l’abbinamento dei vini.

All’Expo, Eataly porterà – a rotazione – ben 84 trattorie. Il suo pensiero?

«Farinetti è il numero uno dal punto di vista commerciale però ha messo in piedi uno show con i soldi e la fatica delle trattorie»

Farinetti è il numero uno dal punto di vista commerciale però ha messo in piedi uno show con i soldi e la fatica delle trattorie. Mi spiego: mettendo solo la struttura, si prende il 30 per cento del fatturato. Con quello che resta, per me è quasi impossibile non perderci nel periodo in cui si lavora all’Expo, visto che hai le spese della materia prima e della brigata ma soprattutto non potrai fare un prezzo elevato. In cambio, Farinetti ha offerto una visibilità unica a molti posti noti solo nel rispettivo circondario. Per carità, sono scelte. Io sto bene qui.

Reina, a lei la chiusura filosofica.

«Anche noi utilizziamo le tecniche moderne, ma non lo diciamo ai quattro venti come gli chef stellati» 

Le osterie serie lavorano in modo che la tradizione resti viva, aggiornandola con la tecnica moderna laddove ha un senso. Nelle nostre cucine, il sottovuoto come il roner e la cottura a bassa temperatura sono utilizzate per rendere più buoni e leggeri piatti storici. La differenza è che non lo diciamo ai quattro venti come tantissimi chef stellati che ne fanno il perno della loro cucina quando invece dovrebbe essere il prodotto.

Sembra polemica verso i miti del momento.

Semmai la consapevolezza di un impegno storico nella ricerca delle materie prime  e appunto nel modo di lavorare: il bollito del Caffé La Crepa richiede una preparazione non così lontana da quella del Bollito…non bollito di Massimo Bottura. Chi li ha assaggiati entrambi, sa che sono buonissimi: il primo fedele ai dogmi antichi ma aggiornato nella ricetta, il secondo è un’opera d’arte nella forma e geniale nella sostanza. Ma sono e saranno italianissimi bolliti.

Quindi l’oste vale uno chef?

L’oste resta un oste. I bravi chef, e ce ne sono molti a differenza dei geni che sono pochissimi sono quelli che trasformano i piatti della tradizione in gioielli: a me viene subito in mente il risotto al gelato di rape rosse e salsa di gorgonzola di Enrico Bartolini. Fantastico, ma è un risotto. Non una cosa alla Adrià o un riso abbinato agli elementi più lontani dalla nostra cucina.

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