Alcuni fatti realmente accaduti: il dottor Albert Johnston si è laureato all’Università di Chicago nella metà degli anni Venti e ha trovato lavoro immediatamente come radiologo in un piccolo ospedale del New Hampshire. Dopo quasi vent’anni di professione e di partecipazione alla vita sociale come membro rispettato della comunità, assieme a sua moglie e ai suoi figli, è stato licenziato in tronco e si è dovuto allontanare dalla cittadina in cui viveva. Gli Stati Uniti avevano appena preso la decisione di intervenire nel Secondo Conflitto Mondiale e il dottor Johnston voleva fare la sua parte arruolandosi come volontario. Aveva compilato i documenti ed era stato scartato per motivi razziali: Johnston era di colore e fino ad allora si era fatto passare per bianco. Perché avesse deciso di smettere di mentire, non è chiaro, ma, per assicurarsi un’istruzione e una carriera, aveva tenuto nascoste le sue discendenze creole a tutti, persino ai suoi figli. Ancora: il fumettista George Herriman, nato a New Orleans nel 1880 e conosciuto come “Il greco” non toglieva quasi mai il cappello e non amava essere fotografato. Non voleva che i suoi capelli crespi denunciassero le sue origini, non greche ma mulatte. Non voleva essere scambiato per uno di quei neri che prendeva in giro nelle strisce di Krazy Kat, che deprecava così apertamente per dare l’idea di non averci niente a che fare.
Non c’è una vera colpa nelle azioni del dottor Albert Johnston o di George Herriman, erano tempi in cui essere accettati e riconosciuti come membri di un particolare gruppo sociale o etnico, faceva la differenza tra il vivere e il morire. Le leggi Jim Crow non sancivano solamente la distanza che le diverse razze dovevano mantenere fisicamente tra loro, ma una purezza di sangue che definiva di fatto tutti i cittadini “separati ma uguali” come utili o sacrificabili, rispettabili o deplorevoli, giusti o sbagliati a seconda della discendenza. Nemmeno più del colore della pelle. I ceppi “sporchi” rimanevano tali e non c’era modo di ripulirli.
«Vivrai il resto della tua vita come una donna bianca. Credimi, è meglio per tutti quanti»
Sono migliaia le storie di americani che sono esistiti al riparo dalle proprie origini. «Ti laureerai, andrai a vivere a Chicago, ti trasferirai in California e vivrai il resto della tua vita come una donna bianca. Credimi, è meglio per tutti quanti», sono le parole che la ricercatrice di Stanford Allyson Hobbs — autrice del libro A Chosen Exile, che esamina diversi casi di “Race Passing” — ha sentito riportare da una vecchia zia, cresciuta negli anni Trenta, come l’unica eredità di sua nonna. Sebbene non sia stata adottata come legge fino agli anni Dieci del Novecento — in Tennessee nel 1910 e poi in virginia con il Racial Integrity Act del 1924 — la “One Drop Rule”, che stabiliva che bastasse una sola goccia di sangue negro per essere considerati di colore, ossia anche un solo avo per essere sottoposti alle Jim Crow, era applicata già da un centinaio d’anni e, specialmente negli Stati del Sud, ha deciso per la vita e per la morte di migliaia di cittadini. Così, chi poteva si lasciava passare per qualcosa che non era, rinunciando alla famiglia e alle tradizioni, abbandonando il vero se stesso alla tirannia di una legge arbitraria, ingiusta e infame. In molti hanno scelto d’istinto, di fronte a una domanda diretta: «Bianco o nero?». E rispondere «Bianco» era il modo per passarla liscia.
Negli anni Novanta il sociologo Melvin Tumin durante una lezione a Princeton si è rivolto verso due studenti che non aveva mai visto prima: «Qualcuno conosce questi due?», ha chiesto al resto della classe. «Siete del mio corso o siete due spook di passaggio?». In inglese il termine “ spook” può indicare due cose: un infiltrato, una spia, oppure una persona di colore — in maniera molto, molto dispregiativa. Il professore non sapeva di avere di fronte due ragazzi neri e non voleva essere offensivo, ma questo non lo ha risparmiato da un’indagine interna. Philip Roth, vecchio amico di Tumin, ha definito la vicenda come un equivoco banale che aveva dato il via a una caccia alle streghe e che ha dato a lui lo spunto per scrivere, nel Duemila, La macchia umana. L’ironia della sorte ha voluto che qualche anno dopo fosse lo stesso Roth a trovarsi coinvolto in una bagarre, non tanto razziale quanto di appartenenza, a causa proprio del suo romanzo ispirato all’episodio del professor Tumin.
Anatole Broyard, critico letterario del New York Times, titolare di una rubrica settimanale per una decina d’anni, scrittore di saggi e racconti, era nato a New Orleans nel 1920. Per sfuggire alla grande depressione, la sua famiglia aveva deciso di trasferirsi a Brooklyn quando Broyard era ancora piccolo e a New York avrebbe passato la maggior parte della sua vita da adulto. È morto nel 1990, lasciando sulle spalle della figlia, Bliss, tutta la responsabilità del suo segreto più grande. Broyard era di origini creole e aveva abbandonato la sua famiglia per inseguire una carriera che lo avrebbe costretto a farsi passare per bianco. «Quando coloro di discendenza mista — come la maggioranza dei neri — si lasciano sparire nella moltitudine bianca, sono tradizionalmente accusati di fuggire dalla propria “negritudine”. Perché invece non si tratta di un tentativo di ricongiungimento con la propria “bianchezza”?», scriveva Henry Louis Gates sul New Yorker nel 1996, all’indomani della scoperta pubblica delle origini di Broyard. La verità è che c’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui un uomo per essere considerato valido ed essere preso sul serio nel proprio mestiere, per avere un’ambizione nella vita, doveva dimostrare di appartenere alla razza bianca. Senza alcun dubbio. E per questo non si può che incolpare un sistema corrotto dall’incapacità di riconoscere i propri limiti.
Dopo che diversi critici, tra cui Lorrie Moore e Janet Maslin, avevano associato La macchia umana alla storia di Broyard, Roth si è trovato nel bel mezzo di un contenzioso, culminato con uno scambio di lettere aperte tra lui, Bliss Broyard — che lo accusava di essersi ispirato alla storia di suo padre negandone la provenienza — e Wikipedia, senza che si giungesse a una conclusione riguardo alle fonti di ispirazione. Poco importa, dal momento che avrebbe potuto attingere a un qualsiasi racconto della segregazione e certamente non sarebbe andato troppo lontano dalla realtà dei fatti.
Nel 2007 Percival Everett raccontava la storia di un autore di colore rifiutato dalla propria comunità per essere “troppo bianco” e per non cedere ai cliché letterari della propria etnia di appartenenza. Il romanzo si chiama Cancellazione, ed è forse quello che più si avvicina alla storia personale dello scrittore, tra epopee western e la ricerca di un nuovo linguaggio che non ristagnasse nell’evoluzione dei termini tribali. Anche quella di Everett, in fondo, è una storia di emancipazione.
Gli anni della segregazione hanno lasciato nell’indole dei neri americani una sorta di tendenza alla difesa preventiva, giustificabile, ma che in molti casi ha finito per spingere le comunità a una nuova forma di isolamento. Chi, come Everett, ha cercato di superare questo genere di preconcetto, non ha avuto la vita facile. «Gli ebrei hanno lasciato l’Egitto, ma l’Egitto non lascerà mai gli ebrei», dice un adagio di diversa provenienza ma identica efficacia. Jim Crow è tatuato sotto la pelle di ogni singolo americano di discendenza africana o creola e non c’è indennizzo al mondo in grado di cambiare il corso della storia, però il ricordo degli orrori passati ha lasciato nel presente la difficoltà estrema di superare le differenze oggettive — fossero semplicemente di pigmentazione. L’etnia, ancora oggi, determina il livello di istruzione e divide i quartieri, costruisce i linguaggi e le relazioni sociali, impone una ridicola ma non trascurabile “regola del sospetto”, decide per le vite delle persone prima ancora che queste siano in grado di decidere per se stesse. Lascia i più sensibili sospesi tra le comunità, incerti come Mookie in Fa’ la cosa giusta, con un mattone in mano mentre attorno a lui la follia è scoppiata, a chiedersi quale sia, in fondo, la cosa giusta da fare.
Non si può considerare la questione razziale superata se ancora oggi si legge di persone costrette a fingersi bianche o a negare la propria appartenenza etnica per essere trattate equamente. Allo stesso tempo, non si può negare che le conseguenze della segregazione siano visibili nella vita di tutti i giorni, non soltanto nelle scorie di povertà e degradazione che interessano le minoranze, ma anche nell’impossibilità concreta di un dialogo aperto, di una reazione civile alla frizione etnica a tutti i livelli della società.
Nel 1959 John Howard Griffith si è fatto prescrivere da un dermatologo vari medicinali che gli scurissero al pelle e si è rasato a zero perché non restasse traccia dei suoi capelli, lisci e chiari. Ha viaggiato per un anno nel Sud segregazionista, fingendosi nero, deciso a toccare con mano il problema che era sula bocca di tutti. Il libro che ne è uscito, Black Like Me, pubblicato nel 1961, è una testimonianza cruda ed esterrefatta e lo ha costretto a vivere come un paria nella sua città natale: Mansfield, Texas. Scriveva: «Ci sono differenze, in questa nostra società, che mai supereremo. Ora mi credono nero e per questo mi odiano, domani torneranno a vedermi bianco e mi odieranno ancora di più. Ho scelto di vivere la mia vita a metà perché molti non possono vivere la propria per intero». Non c’è molto altro da aggiungere.