È probabile che per sintetizzare la presenza italiana all’edizione di quest’anno del Tribeca Film Festival bastino due parole. Un nome: Alba Rohrwacher. Con una grazia indimenticabile e due interpretazioni estremamente differenti ma ugualmente incisive, il volto di Rohrwacher arriva prima dei cartelloni, delle première, delle proiezioni stampa. Da una parte la profondità di una trasmutazione quasi completa, il dover abbracciare una cultura e imparare una lingua — quella albanese, per niente facile — e il dover accettare il dolore imposto da un personaggio ferito. Dall’altra una discesa nell’intimità di una coppia disfunzionale a fianco dello straordinario Adam Driver — già in Girls e Frances Ha , per esempio — e la risalita fuori da un sentimento diverso, frastornato, messo ala prova. Da una parte Vergine giurata, di Laura Bispuri, e dall’altra Hungry Hearts, di Saverio Costanzo.
Quello di Bispuri è un film importante per varie ragioni: innanzitutto è la prima prova sul lungometraggio della regista, poi è l’adattamento (riuscito) di un romanzo ruvido e schietto, Vergine giurata di Elvira Dones (Feltrinelli, 2007) e poi ancora è un’esperienza cinematografica toccante, tanto per il pubblico, quanto per il cast. «Tornavo in Italia e non facevo che chiedermi: “Cosa ci faccio qui? Dovrei essere in Albania”», mi ha raccontato Bispuri appena dopo una delle proiezioni. «È qualcosa che mi porterò dietro per sempre». La storia è quella di Hana, costretta a rinunciare alla sua femminilità per vivere il resto della vita da uomo, il panorama è quello delle montagne albanesi, reso in toni freddi in grado di restituire tutta la gravità di una vita incatenata, repressa, costretta dentro a un’immagine che non le appartiene. «Abbiamo cercato di ottenere un film fluido, realistico, naturale. L’ambiente è stato fondamentale, perché nella storia di Dones c’era la sensazione di ruvidezza che lo stesso panorama suggerisce. Quelle montagne spoglie, quei toni scuri, quelle rocce che richiamano le spigolature del corpo femminile nascosto, in qualche modo sono la proiezione esterna di cosa c’è dentro al personaggio di Hana costretta a essere Mark». Dal punto di vista narrativo il risultato è eccellente — non per niente la pellicola si è aggiudicata il prestigioso premio Nora Ephron — e il lavoro interpretativo di Rohrwacher è perfetto. «Ho dovuto imparare una lingua che non mi apparteneva e che ho trovato molto difficile», ha detto. «Oltre che calarmi in una parte complessa e dolorosa».
Hungry Hearts ha qualcosa delle pellicole indipendenti americane degli ultimi anni. Mentre cercavo il modo di esprimerne l’ambivalenza mi sono imbattuto in una recensione di Jay Weissberg su Variety, cui delego volentieri: «Mescola un’atmosfera da Blue Valentine a Rosmary’s Baby». Dentro c’è la nevrosi di una madre alle prese con un’apprensione crescente e irrazionale nei confronti del figlio, che presto finisce per condurre al disfacimento dei rapporti familiari e alla caduta in una sorta di paranoia, resa da Costanzo anche a livello visivo. Inutile ripetere che Rohrwacher è al suo posto, che riesce a trasmettere tutta l’incostanza e la deriva emotiva della protagonista trascinando con sé il pubblico in un piccolo salto nell’abisso. Anche Driver, abituato a questo genere di interpretazioni, trova pane per i suoi denti. New York — il film è stato girato in inglese e qui è ambientato — si adatta alla perfezione alle atmosfere da indie movie che il regista ha scelto, dimostrando una certa attenzione per i tempi che corrono e certamente un affezione per la città. Qualcosa manca a livello di scrittura e quella che dovrebbe essere un’escalation diventa un ammassarsi improvviso di informazioni, lasciando a un certo punto gli spettatori nella condizione di dover ricapitolare. Il che non fa mai bene all’attenzione.
Le altre due pellicole italiane al festival sono Meraviglioso Boccaccio, dei fratelli Taviani, e Palio, un documentario in co-produzione italo-britannica diretto da Cosima Spender. Iniziamo dall’argomento più semplice: Palio è un affresco di qualcosa che si ripete ogni anno. Chi ha assistito al Palio di Siena almeno una volta nella vita, difficilmente si scorderà della tensione palpabile e del silenzio totale, interrotto solo da qualche bestemmia isolata, mentre vengono annunciate le posizioni di partenza. Poi in un minuto e mezzo si decide il destino di una città, che dà l’idea di essere quello dell’umanità intera. E alla fine una parte della folla di Piazza del Campo esplode, mentre l’altra corre a nascondersi. Il Palio è una saetta, un boato, un episodio momentaneo con conseguenze disastrose. Spender è stata capace di coglierne lo spirito, non c’è che dire, e il suo film si è guadagnato di diritto una menzione per il miglior editing nella categoria documentari.
Il film dei fratelli Taviani, Meraviglioso Boccaccio — il titolo dice tutto, non c’è bisogno di tornare sulla trama — gode dei pregi di una regia esperta e risente dei difetti del cinema italiano contemporaneo. I registi hanno messo in pellicola una Toscana dichiaratamente da cartolina. «Volevamo che sembrasse un dipinto rinascimentale», ha detto Paolo Taviani. «Anche il lavoro sui costumi è stato fatto in questo senso. Volevamo che ricordasse Giotto». Il risultato visivo è decisamente gradevole, magari non particolarmente realistico, ma l’utilizzo di atmosfere solari e l’accentuazione dei colori accesi rende merito alla ricerca estetica. Poi, la scelta di raccontare il Decameron già dalla crudezza della peste, taglia i toni su una visione inedita di una storia esplorata varie volte: «Abbiamo pensato molto alla peste prima di fare questo film, come evento terribile in grado di far fiorire la creatività». I problemi stanno nel cast. Come ha scritto Matteo Bordone su Internazionale non molto tempo fa , il cinema italiano risente dell’interpretazione teatrale e a esplorare Boccaccio si rischia di impantanarsi in un terreno instabile. Così, fatte salve le parti di Kim Rossi Stuart — uno degli attori più sottovalutati di sempre — Jasmine Trinca, Lello Arena e pochissimi altri, il resto era sempre più o meno fuori posto. Vero che forse un film in costume richiede una certa impostazione aulica, ma non si può imporre alla Firenze del trecento una lingua neutra: perde di credibilità.