«Da che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster», viene appena dopo «Io credo nell’America» e soltanto per una mera questione di tempistiche. Prima: poche parole, tre o quattro coltellate inflitte con forza e se non ricordo male anche un paio di spari. I volti, già quelli destinati a rimanere nella leggenda, a tornare in mente ogni volta che si pensa a un genere di pellicole e di personaggi: Joe Pesci, Robert De Niro e naturalmente Ray Liotta. Non sono cambiati molto, nessuno dei tre. Dopo: probabilmente il manifesto, lo zero assoluto dei film di gangster, la base sulla quale altri non potranno che appoggiarsi se vogliono battere le stesse strade di Martin Scorsese. Se davvero se la sentono, dopo un film del genere.
Tempi e luoghi hanno un’importanza vitale in Quei bravi ragazzi, che quest’anno compie venticinque anni e viene celebrato alla serata di chiusura del Tribeca Film Festival. New York è montata su una tavolozza che negli anni a venire rimarrà praticamente invariata, volendo dipingere la malavita organizzata. Ci sono gli scorci del Manhattan Bridge da Dumbo, da un’angolatura tipica, che già compariva in C’era una volta in America (1984), ma che qui assume i contorni vividi e presenti, sebbene il film incominci una quarantina di anni prima della sua contemporaneità. La stessa fotografia, naturale e brillante alla quale David Chase attingerà come fonte di ispirazione per I Soprano (1999-2007), verrà ripresa in film come Bronx (1993), di De Niro e Donnie Brasco (1997), di Mike Newell e per parecchio tempo rimarrà l’unica in grado di restituire un sentimento ambivalente nei confronti di New York: una città in cui la malavita fiorisce e persevera, ma che rimane meravigliosamente attraente. I vicoli del Padrino (1972) erano bui, silenziosi e umidi, quelli di Quei bravi ragazzi sono vitali e hanno il pregio di alleggerire la vita di strada, mantenendola al tempo stesso attendibile. I locali sono affollati, colorati, movimentati di una sorta di cameratismo tra gangster, mobster e malavitosi che qui interpretano la parte dei buoni. «Non sapevamo vivere altrimenti», ripete più volte Henry Hill/Liotta nella pellicola. «Quella era l’unica vita che conoscevamo» e ci si crede a vederli. Il messaggio è chiaro: normalmente queste sarebbero brutte persone, ma questo film è visto dalla loro parte, quindi fate i bravi e prendeteli per eroi.
Poi, Quei bravi ragazzi è un film di crescita e di formazione. A ogni salto temporale, Henry ha imparato qualcosa di nuovo su se stesso e sulla società che gli sta intorno. Non è detto che quello che ha imparato sia per forza costruttivo, ma certamente ne ha fatto tesoro. Quando lo ritroviamo cresciuto, appena dopo lo scarto del suo primo arresto, capiamo immediatamente che ha raggiunto la sua fase adulta. Sappiamo che la prigione non lo ha piegato, ma reso più forte e più scaltro. Più sicuro di sé e più fiducioso nel fatto che la vita che conduce non nuoce sostanzialmente a nessuno: è l’unica normalità possibile e gli anormali sono coloro che non la perseguono.
«Non passa giorno senza che io senta nominare Quei bravi ragazzi. A meno che non me ne rimanga chiuso in casa»
Prendiamo Henry a tredici anni e lo osserviamo sviluppare una coscienza — deviata, ma pur sempre una coscienza — e formarsi dei modelli. Lo vediamo prendere delle decisioni importanti come quella di lasciare la scuola e ottenere i suoi primi successi. Lo vediamo sposarsi e, come capita quando la vita di una persona si lega a quella di un’altra, le voci narranti da quel punto in poi diventano due — Lorraine Bracco meriterebbe un capitolo da sola, per quanto è stata in grado gestire abilmente una parte difficilissima. Lo vediamo all’apice della sua carriera e ci appendiamo a lui quando comincia a volare in caduta libera. Cresciamo con lui e finiamo per conoscerlo per tutta la vita, nello spazio di un film. Liotta è tagliato per la parte: «Non passa giorno senza che io senta nominare Quei bravi ragazzi. A meno che non me ne rimanga chiuso in casa», ha detto alle celebrazioni per il venticinquesimo. «Ha definito quello che sono, come le frequentazioni del personaggio che interpretavo hanno definito il suo destino. E avevano pensato ad altri, non erano convinti di volere me. Che vi devo dire? Ho avuto fortuna».
Contemporaneamente, seguiamo evolversi una generosa porzione di storia degli Stati Uniti. Entriamo nelle dinamiche di un clan mafioso e abbiamo chiari fin da subito i ruoli. «Pauli si muoveva lentamente, ma solo perché non era costretto a muoversi per nessuno», riassume in un’unica frase l’assetto di un caporegime, lo posiziona nell’organigramma e da lì non si schioderà più. Qualche sera fa mi sono imbattuto in Paul Sorvino, l’ho visto spostare la sua mole imponente dal tavolo di un ristorante e navigare come una petroliera tra i ghiacci verso l’uscita. Ho subito pensato che quella parte gli era stata tagliata addosso e che non se ne sarebbe liberato mai. I volti della maggior parte dei comprimari in Quei bravi ragazzi sono talmente riconoscibili da essere entrati nell’immaginario comune come “fisionomie da mafioso” e Scorsese ha messo subito le cose in chiaro, descrivendo i personaggi uno per uno in un unico pianosequenza e affibbiandogli i soprannomi. Frankie Carbone, Frankie “The Wop”, Jimmy “Two Times”, Spider. Ogni ruolo è così ben definito da rimanere a infestare il cinema a venire come un manuale di stile. Da qui, nessuna invenzione.
Joe Pesci ha vinto un Oscar per l’interpretazione di Tommy De Vito. «Ti faccio ridere?», bercia affettando le parole con la parte inferiore della bocca e puntando la pistola in faccia al malcapitato Henry. «Sono buffo? Ti faccio ridere?». E sì, fa ridere. Il punto è sempre stato quello di esagerare: l’accento scostante, la gesticolazione nevrotica, le reazioni scomposte a qualsiasi cosa gli capitasse attorno. La rabbia che non è mai vera rabbia ma una sorta di sfacciataggine nervosa, costruita su tante piccole esplosioni che raramente e generalmente per errore si concretizzano. Pesci si è cristallizzato nella parte e si ha l’impressione che non abbia fatto altro per tutta la vita: Toro scatenato (1980) prima, Mio cugino Vincenzo (1992) e Casinò (1995) poi. Sempre teste calde possibilmente di origine italiana, possibilmente del New Jersey. Sarà che viene veramente da Newark, che è stato amico intimo di Frankie Valli e che ha conosciuto da vicino la realtà della seconda generazione immigrata. Sarà che la scena del ristorante l’aveva provata sulla pelle, ma dalla parte del cameriere impotente che viene aggredito. «Quando ho chiesto a Joe di partecipare al film, non voleva», ha dichiarato Scorsese. «Mi ha invitato a casa sua e mi ha detto: “Ti racconto un paio di aneddoti, se li metti nel film allora puoi contare su di me”».
«Il finale della scena del ristorante lo abbiamo improvvisato», ha raccontato Liotta. «Doveva troncarsi dopo che Joe aveva scoperto il bluff. Io avrei dovuto dire: “Piantala, Tommy!”. Ma per qualche ragione ho detto: “Sei proprio buffo!” e così Joe ha tirato fuori la pistola ed è finita come la vedete». C’è un modo, in Pesci, di incanalare una frenesia reale nella recitazione, di prendere l’istinto e trasformarlo in qualcosa di controllabile, per lo meno fino a un certo punto, che gli dà il potere di gestire un arsenale molto più grande della semplice prova d’attore e di andare oltre la recitazione, per uscirne sempre esageratamente autentico.
Le ultime scene del film, quelle della perdita del controllo, sono la parte che pone decisamente la pellicola al di sopra di tutte quelle girate fino ad allora e della maggior parte dei film che sarebbero venuti dopo. «Spostare la cocaina, preparare il sugo di polpette e prendersi cura del fratello in sedia a rotelle. Tutto contemporaneamente», ha detto Chase. «Nessuno aveva mai fatto qualcosa come la sequenza finale di Quei bravi ragazzi. Succede tutto talmente velocemente che nemmeno gli spettatori hanno più le redini della situazione. Si ha la sensazione di essere fatti, pieni di coca, come Henry». Idealmente, la fine di Henry dovrebbe arrivare per mano “nemica” — e cioè di coloro che sono stati amici fino ad allora ma che poi sono passati dalla parte del torto — e invece riesce a fare tutto da solo. Non ci sono guerre tra clan rivali o sparatorie spettacolari, c’è un uomo che lentamente si stringe il cappio attorno al collo e che alla fine scivola rischiando di strangolarsi.
Per almeno tre volte ci troviamo di fronte a quello che sembra essere il momento del tracollo, ma il tracollo vero e proprio non arriva fino a che il protagonista stesso non fa il suo primo, unico e fatale passo falso. A questo punto la faccenda può risolversi in due modi: con la morte o con la redenzione. Scorsese riesce a rigirare la frittata per l’ennesima volta e ad aprire un nuovo capitolo, quello del pentimento. Che di nuovo non è il capitolo finale, perché a questo segue quello del processo, ovvero quello della ripresa umana di Henry, il compimento della sua formazione.
Henry Hill, quello vero, è morto in un letto di ospedale a sessantanove anni. Per tutta la vita aveva aspettato di essere ucciso, e invece la natura ha fatto il suo corso. Nelle numerose interviste che ha rilasciato dopo che Scorsese lo aveva trasformato in un mito, ha sempre dichiarato con un vago senso di stupore: «Pensavo che non sarei arrivato a questo momento».
In qualche modo la vera vita di Hill dopo i fatti raccontati rappresenta il capitolo mancante del film di Scorsese. L’ultima data in sovrimpressione, quella delegata alle conclusioni prima dei titoli di coda. Quei bravi ragazzi è un film senza una vera e propria fine, l’ho visto decine di volte — ogni volta con la stessa apprensione della prima, ma ogni volta cogliendo nuovi particolari, ultimamente mi sono accorto della geografia — e ancora mi chiedo come è andata veramente. So quando ciascuno dei gangster è morto e perché, so quanti anni di prigione sono stati assegnati a ciascuna delle persone coinvolte, conosco i capi d’accusa, so del divorzio di Hill e in qualche intervista ho letto addirittura della località in cui è rimasto nascosto, però mi domando: perché non è morto come avrebbe dovuto? Cosa manca a questo film? Qual è il particolare che mi sto perdendo?
Probabilmente non c’è nessun particolare nascosto da trovare, il destino di Henry Hill era quello di crescere come un gangster — che, per tornare al principio, era la cosa che aveva sempre desiderato — e di morire come un uomo qualunque. Che poi qualunque non è mai stato, dal momento che ha ceduto il suo nome a Liotta e la sua vita a Nicholas Pileggi — autore del memoir Il delitto paga bene (Rizzoli, 1985) e co-sceneggiatore del film — prima e a Scorsese poi, per una cifra che si aggira attorno al milione di dollari. A un certo punto, tra la fine delle riprese e la post-produzione, Scorsese se n’è uscito dicendo: «Abbiamo un problema, questo non è un bel film». Quello che ne è seguito è stata una lunga discussione tra produttori, regista e collaboratori. Uno studio poco convinto dei cambiamenti e degli accorgimenti a livello di montaggio, uno spezzare e ricucire continuamente fino a che, non senza qualche dubbio, il film è diventato quello che abbiamo oggi. Venticinque anni dopo, un capolavoro.